2020_05_03 Melodramma, un morto che cammina - 1955

RICORDIANA Anno 1 N.5 Giugno 1955

Tratto dalla RIVISTA  MENSILE   DI   VITA   MUSICALE NUOVA  SERIE  Un morto che cammina (Alceo Toni)

Un morto che cammina?

È il melodramma!
È morto per chi osserva il suo precipitante decadere cioè la carenza del suo repertorio moderno, inesistente, anzi, quale espressione artistica universalmente accettata, e pensa ad altre forme ed attività artistiche, come il poema epico in versi e in rima, anch'esse per secoli coltivate ed esaltate, ed oggi da nessuno prese a oggetto di esplicazione, né richieste e gradite.
È vivo considerando non solo le folle che si trascina dietro, ma pure e soprat­tutto gli accesi entusiasmi che suscita, non avvertibili per altre manifestazioni dello spirito artistico.
Che non vi siano oggi autori melodrammatici e opere liriche assurte alla popo­larità universale assoluta, è certo cosa che fa pensare, e può indurre all'affer­mazione disperata che s'è detta. Che tutto tramuti, decada e si evolva quaggiù è pur cosa non pensabile soltanto, ma accertata e accertabile ognora. Sin dal suo sorgere, il melodramma si è avviato al suo divenire, deciso, sicuro, senza soste. Nel suo sviluppo secolare non ci sono mai stati arresti: non si è dato mai che non legasse fortune a fortune, che non avesse una continuità, come diremmo oggi, immanente ed evolutiva insieme. Dal Catalogo di tutti i Drammi in musica recitati nei teatri di Venezia dal 1637 al 1745, compilato da Antonio Groppo, un inventario di nomi e di dati preziosissimo, si vede come il reper­torio lirico si rinnova di anno in anno: come gradualmente cangia, come evolve, come passa rinnovato e trasformato da stagione a stagione, fenomeno o rispondenza estetica di costume, o se volete dire, anche di moda. Pensate al seguito storico di tali notizie incominciando dal settecento dell'opera comica, e da uno dei suoi più celebrati cultori, che non nomino a caso, Giovanni Paisiello. Da questi si modula a Rossini, da Rossini a Donizetti a Bellini a Verdi. Da Verdi a Puccini a Mascagni a Giordano. Poi?
Qui è la rottura di una catena di ininterrotti anelli consequenziali e tradi­zionali.
Il filo del legame storico è perduto.
Si badi. La constatazione che sto per fare non involge un giudizio di demerito o di riprovazione critica. È un semplice dato di fatto.
Dopo Puccini, per dire un nome comprensivo di uno spirito e di un'età teatrale, chi ha raccolto l'eredità di essa, chi la continua con gli entusiasmi universali che a sua volta essa ereditò e rinnovò?
Mi direte della fresca vena dello Zandonai e di certe sue incisive accentuazioni drammatiche. Ricorderete la bella assimilazione wagneriana del Montemezzi. Ci troveremo ad ammirare la nobile concezione del dramma lirico del Pizzetti e a sentire le suggestioni del suo lirismo patetico, tra arcaico e popolaresco. Fatti particolari, squisitezze di contorno, studiata elevatezza di ispirazione arti­stica. Ma l'opera trionfale che ha conquistato il mondo città per città, com'è avvenuto per i grandi autori dei secoli passati, dov'è? 
Badate: mi son rifatto all'operismo italiano moderno, ma il discorso non cambia se lo si porta a dire di qualsiasi paese musicale d'ogni angolo della terra civile. Ora, si è parlato e si parla di frattura fra la sensibilità e la concezione artistica dei musicisti moderni e la cultura e le possibilità emotive del pubblico, delle folle attratte agli spettacoli lirici, ossia del popolo, non inteso in senso sociale ma etnico. 
Qui opporrei una serie di domande. 
È questa una frattura impu­tabile alla crassa ignoranza di quest'ultimo, alla sua pigrizia mentale che ama le posizioni da tempo occupate, che s'appaga del già udito e conosciuto, che non è punto da nessuna curiosità intellettuale, ma ama il rimuginare quanto-da tempo ha ingerito e non brama altr'esca? Sarebbe il nostro tempo un tempo  musicale di misoneisti [ndr Atteggiamento di avversione verso ogni novità, soprattutto nel campo politico e sociale, ma anche nella letteratura, nelle arti, nel costume, ecc.], refrattari alle sollecitazioni dello spirito moderno, in­capace di intendere il tono espressivo di una voce nuova?
Misoneista e tenacemente tradizionalista il nostro mondo, in generale, nessuno» oserebbe dire. C'è mai stata e ci può essere un'età immobile, stazionaria, dica spiritualmente e mentalmente? Non contrasterebbe con il dinamismo cosmico incessante, che tutti ci influenza e condiziona?
Del resto a restare proprio in musica, come spiegare il propagarsi mondiale della musica jazzista, i suoi successi popolari e non popolari soltanto, addi­rittura travolgenti?
Abbandoni e dilettazioni, queste, edonistiche? 
Sì ma di natura tutt'altro che abitudinarie, non ferme a modi usuali, non sonnacchiosamente attardate su luoghi comuni, e bisogna pur ripetere che il nostro tempo è invece per defini­zione e per constatazione incontrastata, un tempo dei più dinamici che la storia riscontri, aperto a tutte le curiosità, audace e pronto a seguire ogni idea, ogni iniziativa, ogni pratica di vita, sin la più spericolata, proprio fuor dell'usato, innovatrice, addirittura rivoluzionaria nel senso sconvolgitore di inveterate abitudini. Allora?
I musicisti avrebbero quindi camminato più del loro tempo? 
Sarebbero giunti a distanziare incommensurabilmente i poveri comuni mortali 
e le loro opere li chiamerebbero ad innalzarsi ai culmini massimi del pensiero:
 cose della ingegnosità cerebrale più che della fantasia artistica? 
Le loro musiche sareb­bero così progredite che non si saprebbero avvicinare e comprendere senza un'iniziazione di esse lunga e profonda?
Saremmo all'assurdo più sopra avvistato: a un impossibile accordo fra l'artista segnacolo e interprete della propria epoca e l'epoca stessa. So che mi obbietterete il facile caso dell'artista, anzi del genio incompreso. Ma nel fatto che osserviamo non si tratta affatto del singolo ingegno che precorre i tempi, che si pone all'avanguardia di un nuovo cammino artistico, dell'uomo nuovo, in­somma. 
Qual'è il genio innovatore, rivoluzionario del nostro secolo? 
Non uno, ma tre, quattro, cinque si son proposti per questo alla considerazione univer­sale, sospinti non soltanto dalla loro industriosa sollecitazione pubblicitaria, ma affiancati, inneggiati da procaccianti imitatori e da imbonitori ed esegeti critici. 
È ormai un mezzo secolo che teorie e teorizzatori di nuovi verbi musi­cali si avvicendano contrastandosi sulla scena della vita musicale, ma l'abbiamo il nuovo vessillifero di essa che sotto la nuova bandiera abbia raccolto e paci­ficato ogni tendenza avvenirista? 
C'è il musicista che fa epoca? Abbiamo un Wagner, un Verdi, un Puccini, a ricordare soltanto nomi di ieri di ben deci­siva e dominante personalità?
Osservando che nessun melodramma moderno ha conquistato il consenso dell'uman genere, che i cultori di esso si dibattono variamente sia nell'ascrivergli questa o quella funzione estetica, sia nel concepirlo in questo o in quel senso, nessuno ha riflettuto che il medesimo problema è ugualmente agitato ed insoluto nell'ambito della musica cosiddetta pura? 
Va bene, non c'è un melodramma moderno, dei nostri giorni, che appaghi entusiasticamente da un punto all'altro del globo. Ma c'è parimenti una musica di oggi ugualmente accettata in ogni angolo della terra, tipica, esclusiva della sensibilità dominante, aderente e confacente in tutto agli impulsi della nostra cantabilità in particolare e, in generale, della nostra musicalità?
Il melodramma si è sempre sostanziato di musica: è un'azione scenica che
si anima e si potenzia con fattori predominantemente musicali,
nelle forme e negli spiriti della natura di essi. 
Ogni epoca ha avuto il melodramma proprio della propria musica, secondo s'intende, se volete specificare, l'indole e i caratteri essenziali dei vari paesi ove potè fiorire. 
Non do esempi che chiunque li trova subito da sé. Ma dunque se non avvertiamo che ci sia o se addirittura non c'è una musica essenziale, esclusiva del nostro tempo, universalmente riconosciuta ed accettata, come possiamo accorgerci che ci sia, e come può esserci il melodramma tutt'affatto nostro, della nostra esclusiva musicalità e drammaticità?
Non si può quindi a rigor di logica, parlare della morte del melodramma, ma semmai della musica.
Ma qui si entra in un altro discorso ancor più lungo, e bisogna rimandarlo ad altro momento.

articolo di ALCEO TONI

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