Teatro Coccia - Novara
IL CANTO DELL'AMORE TRIONFANTE
di PAOLO COLETTA
debutta venerdì 12 dicembre 2014, ore 20.30
L’opera in due atti vede la direzione d’orchestra di Nathalie Marin e un giovane cast composto da
Blerta Zhegu, soprano
Vladimir Reutov, tenore
Alberto Zanetti, baritono.
Con quest’opera il teatro prosegue nel suo percorso di apertura verso i compositori e le opere contemporanei. Il Coccia accoglie una prima esecuzione assoluta, come avvenne nel 2013 con La gatta bianca di Sandra Conte (inserita nel programma di MITO – SettembreMusica), e la produce, investendo così, di fatto, nel futuro dell’opera lirica italiana.
ENSEMBLE
MUSICALE DELL'ACCADEMIA LANGHI di NOVARA
Davide Agamennone, violino primo
Andrea Ricciardi, violino secondo
Carmen Munoz Hernandez, viola
Isabella Maria Veggiotti, violoncello
Marco Corleo, contrabbasso
Giovanni Crola, flauto
Stefano Calcaterra, oboe
Gabriele Lupo, clarinetto
Tommaso Ruspa, corno
Luca Barchi, fagotto
Francesco Macrì, Tommaso Albeltaro, Erika
Carnovale percussioni
Laura Colombo, arpa
Aberto Veggiotti, pianoforte e maestro
collaboratore
LA STORIA
Anno 1542. Una bella e giovane donna,
Valeria, è amata da due amici, Fabio e Muzio. Dal primo d'un amore puro e
luminoso, dal secondo d'un amore torbido e sensuale.
Valeria sposa Fabio e i due sposi vivono
felici. Muzio intraprende un viaggio che lo porterà in Asia. Lì impara a
praticare le arti magiche, grazie alle quali, al suo ritorno, riuscirà a
piegare Valeria al suo desiderio.
Nella giovane donna riemerge la
contraddizione interiore tra anima e corpo, spirito e materia. Pur amando il
marito, in preda a un intimo tormento e a dubbi angosciosi si piega a Muzio e
ha con lui un convegno amoroso. Nel culmine dell'amplesso, la ragazza sente per
la prima volta dalla voce di Muzio «il canto dell'amore trionfante», ammaliante
e incantevole melodia che la spinge a darsi interamente a lui.
Dopo quest'esperienza Valeria è profondamente
turbata; tornata a posare come modella del quadro che il marito sta dipingendo ritraendola
nelle vesti di Santa Cecilia, non può più raffigurare le sembianze della
vergine, icona della purezza di spirito. Solo la morte di Muzio, ucciso dal
pugnale di Fabio, sembra ristabilire l'equilibrio e ridare a Valeria-Cecilia il
suo candore e insieme quell'espressione, il cui smarrimento aveva tanto turbato
il marito pittore.
Ma è un ritorno illusorio, perché un giorno
Valeria, seduta davanti all'organo per posare, sente all'improvviso il bisogno
di trarre dai tasti le note di quel «canto dell'amore trionfante» che aveva
appreso nel momento di abbandono da Muzio, e nello stesso tempo dentro di sé il
palpito di una nuova vita.
NOTE DI REGIA
Il
segno sonoro della contemporaneità, oggi è ancora retaggio di alcuni movimenti
del secolo scorso, quando la scrittura poteva rappresentare un atto di
eversione, l'espressione extra-musicale di un'idea, di un'ideologia. Ora che
questa funzione è dissolta si assiste inspiegabilmente al sopravvivere di certe
pratiche di destrutturazione di strutture che di per sé già non esistono più.
Si continua a destrutturare cioè qualcosa che è già destrutturato.
Pare
esserci un nodo difficile da sciogliere, rappresentato dal rapporto di
soggezione e subordina-zione che lega noi autori di oggi ai nostri predecessori
e — più precisamente — ai nostri maestri. La crisi di articolazione tra vecchi
e nuovi linguaggi, che era la chiave di volta per far nascere veri e propri
nuovi sistemi simbolici spesso inaspettati, ha precipitato la creatività
dell'avanguardia musicale del nostro Paese (ma forse anche altrove) in una sorta
di acquiescenza parecchio conformista che spinge i compositori ad aderire a una
specie di alfabeto sonoro che del crisma della sperimentazione ormai conserva
spesso solo l'intenzione.
Ma è
vero che quello su ciò che è o non è contemporaneo, è un discorso che può
facilmente sci-volare sul piano di ciò che è rivoluzione o reazione,
apocalittico o integrato, vecchio o nuovo, giusto o sbagliato. Troppo spesso la
storia ci ha offerto lo spettacolo della sfida tra punti di vista tanto
lontani, eppure in realtà così vicini, rivelandone poi la natura di pretesto
tutt'altro che arti-stico. Abbiamo probabilmente qualche strumento in più per
evitare il rischio di consentire alla musica di proiettare ombre troppo lunghe
sul terreno della filosofia e del pensiero dell'uomo con-temporaneo. Mi
limiterei quindi a manifestare e condividere qualche ragionevole dubbio sul
dover o non dover aderire necessariamente agli ultimi ritrovati della
creatività compositiva della musica cosiddetta contemporanea — e nella
fattispecie del teatro musicale che nasce oggi —, e a ridimensionare quella che
sembrerebbe la premessa a chissà quale dissertazione sullo stato dell'Arte a
una semplice premessa e basta.
Certo è
che, in un periodo in cui è evidente una spiccata predilezione e un
significativo interesse per il suono in senso grezzo, quasi materico, esplorato
in primo luogo nella sua connotazione timbrica, e la concezione tematica della
musica suona come retorica, enfatica e superata, mi è sembrata una sfida
interessante ripristinare alcuni legami con la tradizione musicale italiana e
non so-lo in senso non accademico (il che non significa anti – accademico). Ho
colto così l’occasione offerta dalla Fondazione Teatro Coccia di operare con
una certa libertà alcuni sconfinamenti.
Come
mettere insieme per esempio un cantabile di matrice dodecafonica con veri e
propri prelievi dal teatro musicale ottocentesco e del primo novecento: vale a
dire arie e, in genere, numeri chiusi, che piombano nella partitura come
monoliti nel deserto sconfinato dell'assenza di tonalità.
D'altronde,
la scelta di trasporre in opera “Il canto dell’amore trionfante” di Ivan S.
Turgenev è derivata in primo luogo dalla dislocazione temporale e spaziale del
racconto, ambientato nella Ferrara del 1542, nonostante l’autore fosse russo e
vivesse e operasse nell’Ottocento. Questa obliquità è il criterio principale
che ha favorito la traduzione del racconto in opera.
Ho così
diversificato i linguaggi compositivi, a partire dal patrimonio melodico e
vocale del pe-riodo rinascimentale. Pur assente ogni intento di ricostruire
l'atmosfera delle corti cinquecentesche in Italia, cercando di non tradire una
prospettiva storico-musicale rigorosa, la partitura si propone di interpretare
nell'oggi la complessità delle influenze musicali, emblematica proprio di quel
periodo.
Come
già nei romanzi, così nei racconti di Turgenev i veri eroi sono le figure
femminili; sono quelle che più rappresentano l'animo dello scrittore, le sue
illusioni e la sua fede.
In
questo, dedicato alla memoria di Gustav Flaubert, come in altri racconti
ritroviamo il tema del-lo sdoppiamento che si produce sotto l'influenza del
dubbio, dello scetticismo, e il dilaniarsi della persona tra amore e passione,
tra fedeltà e istinto, tra cultura e natura.
In un
clima fantastico e onirico, “Il Canto dell'amore trionfante” presenta anch'esso
un elemento costante di buona parte della produzione novellistica turgeneviana:
il motivo soprannaturale o al-meno magico che sta alla base della svolta
tragica della vicenda dei tre ragazzi.
È
proprio la natura fantastica del racconto dello scrittore russo ad avermi
sollecitato a spingere sia la scrittura della partitura che quella del
libretto, oltreché della messa in scena, su un piano decisamente fantastico.
Quasi una preveggenza dei meravigliosi e inquietanti scenari che di lì a
qual-che anno sarebbero stati partoriti dal genio di un altro grande romanziere
russo: Isaac Asimov. Non sono poche al mondo le edizioni del Canto inserite nei
cataloghi della letteratura fantastica, se non addirittura fantascientifica.
Procedendo
così per rapide associazioni di idee e forzando questa affascinante ascendenza
onirico – metafisica, proprio la musica mi ha consentito di mettere insieme una
serie di mondi apparentemente distanti, ma che — grazie al cinema (e quindi
alla musica per film) — diventano decisa-mente conciliabili attraverso
l’utilizzo del “genere”, così come declinato da due grandi maestri del racconto
di genere d'ogni tempo: Hitchcock e Kubrick.
E se ho
parlato poco fa di monoliti, cercando di trovare un'immagine per definire qui
la natura delle arie, come non prendere a prestito il grande monolito nero
comparso nella prima parte di 2001: Odissea nello spazio? E così proseguendo:
come non chiedere ancora aiuto al linguaggio filmico di Kubrick quando riprende
il tema del doppio sogno schnitzleriano in Eyes Wide Shut per esplorare
l'ambivalenza sessuale di un matrimonio felice, cercando di “equiparare
l'importanza dei sogni e degli ipotetici rapporti sessuali con la realtà”? È
esattamente ciò che accade a Valeria e Fabio, attraverso il loro
amico/fratello/amante Muzio.
Di
genere in genere, a rapidi balzi, pensare a Hitchcock diventa inevitabile,
quando la storia assume le tinte scure del noir e della tragedia, pur non
perdendo la proverbiale levità del regista inglese nel raccontare.
Anche
in questo caso, la musica di Herrmann, il suo inconfondibile suono, un certo
uso convulso degli archi, sono capaci di riassumere in sé un'intera poetica del
thriller e del racconto di suspence. Il più piccolo prelievo di tale materia è
capace di germinare senso in qualsiasi altro contesto anche lontanissimo.
Detto
questo, poiché il cuore pulsante di un'opera di teatro musicale è la voce, non
mi resta che ringraziare Blerta, Alberto e Vladimir per aver condiviso e
tradotto in realtà quest'idea.
Quest'opera
non sarebbe mai esistita senza l'intuizione e il coraggio di Renata Rapetti; il
suo allestimento non sarebbe mai avvenuto senza l'ineguagliabile fiuto di
Renato Bonajuto, grazie al qua-le ho avuto la possibilità di conoscere Nathalie
Marin, quint'essenza di tutto ciò che un compositore può desiderare dal suo
direttore. Dedico “Il canto dell'amore trionfante”, come minacciato da mesi, a
PierLuigi Russo.
Paolo Coletta
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