Giovedì 3 dicembre 2015, ore
20.30
“LA PAURA”
Prima esecuzione assoluta
dell’Opera
tratta dal racconto omonimo di
Federico De Roberto.
Musica di Orazio Sciortino
libretto di Alberto Mattioli
e Orazio Sciortino
regia di Simona Marchini.
Personaggi e interpreti:
tenente Alfani - tenore Blagoj Nacoski
sergente Borga (lombardo) baritono - Tiziano
Castro
Il Teatro Coccia di Novara prosegue nel
suo percorso di apertura verso i compositori e le opere contemporanei. Dopo La gatta bianca di Sandra Conte nel 2013
e Il canto dell’amore trionfante di
Paolo Coletta nel 2014, sul prestigioso palco novarese sarà allestita e
prodotta una nuova opera contemporanea, scritta e diretta dal giovane
compositore Orazio Sciortino e
intitolata La Paura, dal racconto omonimo di Federico De Roberto, con libretto di Alberto Mattioli e Orazio Sciortino, per la regia di Simona Marchini, signora del teatro
italiano, grande esperta di opera lirica e con all’attivo numerose regie.
Cogliendo anche l’occasione delle celebrazioni per il centenario dell’inizio
della Prima Guerra Mondiale, giovedì 3 dicembre 2015 alle 20.30, andrà in scena sul palco del Teatro Coccia di Novara un titolo che
racconta la vita di un “ordinario giorno da soldati”.
L’Orchestra è quella dei Talenti Musicali, orchestra composta da
musicisti che grazie a Fondazione CRT
si sono perfezionati nelle migliori accademie europee. Nello specifico l’organico strumentale è composto da un
flauto, un oboe, un clarinetto, un fagotto, un corno, un tromba, un trombone, due
percussionisti, pianoforte e quintetto d’archi.
Personaggi
e interpreti: il tenente Alfani è interpretato dal tenore Blagoj Nacoski, il sergente Borga (lombardo) è il baritono Tiziano Castro, il caporale (campano)
il basso Daniele Cusari, il soldato
Ricci (marchigiano) il tenore Vladimir
Reutov.
Il progetto
ha, poi, un ulteriore valore: le comparse
recitanti e il coro dei soldati saranno interpretati dagli allievi del II e III anno del Corso Attori della STM
(Scuola del Teatro Musicale) di Novara, diretta da Marco Iacomelli e Andrea Manara. Un tocco di “novaresità” in più
che caratterizzerà ulteriormente l’opera.
La Paura è inserita nel programma ufficiale delle Commemorazioni del Centenario
della prima Guerra Mondiale a cura della Struttura di Missione per gli
anniversari di interesse nazionale della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
I biglietti sono acquistabili
presso la biglietteria del Teatro Coccia (Via Rosselli, 47 a Novara) da martedì
a sabato dalle 10.30 alle 18.30 e on line sul sito www.fondazioneteatrococcia.it 7
giorni su 7, 24 ore su 24.
Biglietti dai 15,00 ai 30,00
euro.
LA STORIA
La vicenda
si svolge in poche ore, in una trincea italiana sul confine austriaco
durante la Prima Guerra Mondiale. I nemici austriaci non danno segni di
vita: invisibili e distanti appena cinquecento metri, sembrano concedere una
sorta di tregua. Una tranquillità che rende spettrale la natura, inospitali i
paesaggi di montagna e, in quel silenzio, il cuore trema. Un improvviso
bombardamento da parte austriaca rompe la tregua, un soldato italiano è
abbattuto mentre cerca di raggiungere il posto di vedetta. Il tenente Alfani,
protagonista dell’intero racconto, si trova costretto a mandare continuamente
uomini per difendere il posto di vedetta. Ogni soldato, chiamato a coprire il
turno stabilito, sa di essere destinato a morire, manifestando la propria
angoscia, ognuno con il proprio dialetto, nel breve colloquio con il tenente.
Alfani si fa carico del terrore di ciascuno dei suoi soldati ed è combattuto
fra il dovere, sentito e forte, di obbedire ai comandi e la consapevolezza
dell’assurdità della morte. Così l’intera opera è scandita dai “ta-pum”
dell’invisibile cecchino austriaco e dall’inevitabile susseguirsi di caduti.
L’ultimo dei chiamati, il soldato Morana, il più coraggioso e decorato di
tutti, unico del plotone a parlare italiano, si rifiuta di andare. E, dopo un
confronto tragico col tenente, compie il gesto che chiude l’opera: si uccide
per paura di essere ucciso.
Il percorso doloroso della
memoria dovrebbe costituire un fondamento di consapevolezza della storia, della
vita di un popolo, nel tentativo di stabilire un monito, nella volontà di non
ripetere orrori e stragi. Frustrante è invece la constatazione del tragico
divario tra il facile accesso allo studio del passato e un’umanità sempre più
cieca nei confronti del dolore che si rinnova e sorda al grido di quelle anime
scolpite nei memoriali, nelle piazze, nel nostro tempo. La tecnica istruisce ma non insegna, perché a
mancare sono le lacrime, gocce di tempo di quegli occhi vivi a cui non abbiamo
teso le orecchie quando avremmo dovuto. I nonni non possono più raccontare il
sangue delle trincee, e noi non possiamo più ascoltare la voce rauca di
un’Italia, dell’Ultima Italia, che si è compiuta. I nonni non possono più
raccontare quanti dialetti le acque dell’Isonzo o le rocce del Carso udirono, e
quanto eroismo vide giovani corpi sfilare sotto i tiri micidiali degli
austriaci. I nonni non possono più raccontare che i nomi che oggi sono vie e
piazze d’Italia un tempo erano luoghi della lacerazione, della passione
spezzata, della speranza di un futuro migliore. Così la Grande Guerra è
diventata la grande guerra della poesia e dei racconti, di Gadda, De Roberto,
Rebora, la cui memoria non conosce gli opportunismi del mercato mediatico ed è
destinata a sopravvivere nel cuore di chi crede nel potere della bellezza e
della storia. Orazio Sciortino
LA STRUTTURA DELL’OPERA
L’opera, in
un atto unico, è pensata come un’unica
arcata formale suddivisa in sezioni
caratterizzate dallo scambio di battute
tra il soldato chiamato al turno e il
tenente Alfani. Nel succedersi di queste sezioni, o scene, a cambiare non è
lo scenario ma il contesto timbrico che delinea un nuovo personaggio, una
diversa percezione del destino, della paura. Il tenente Alfani, il caporale, il
sergente e il soldato Ricci nel suo breve intervento sono gli unici a
utilizzare diverse tipologie di vocalità. Ogni soldato invece, nel breve
dialogo col tenente, pronuncia pochissime frasi, spesso poche parole, in una
sorta di recitato con una libera inflessione vocale. A caratterizzare lo stato
d’animo e il profilo psicologico dei singoli “condannati” contribuisce la
scrittura strumentale che sostituisce il lirismo non pronunciato dei militari.
I silenzi di quest’ultimi, in contrappunto con gli strumenti, rappresentano la
voce di coscienza, l’umana consapevolezza del confronto con l’inevitabile
destino a cui vanno incontro.
NOTE DI REGIA
Quando Orazio Sciortino mi ha
chiamato per condividere un’esperienza così singolare, per un attimo ho avuto
il sano timore di un salto nel vuoto. Poi, la stima per lui e la qualità della
proposta mi hanno convinta ad accettare la “sfida”. Sì, perché nel nostro
lavoro in generale ogni volta ci si mette alla prova e si rischia… senza
mediazione: siamo noi da un parte e il pubblico dall’altra. E in mezzo, il
giudizio.
Bene, una volta entrata
“dentro” la scena, ho immaginato come rendere, senza retoriche o didascalie
troppo ovvie, quella sintesi sublime che Federico De Roberto era riuscito a
dare dello sgomento, del disorientamento, dell’attesa alienante della morta.
Tutto questo in un contesto feroce e estraneo ai più, sia nelle motivazioni,
sia nella prassi.
Creature giovani e
giovanissime, vittime inconsapevoli di qualcosa che, come sempre nella storia
degli umili, decide e passa sopra le loro teste, le loro vite, le loro piccole
realtà. In una parola l’orrendo, ingiusto, eterno gioco della guerra, diletto
mostruoso di interessi e potere sempre riproposto. Mutevole negli attori, ma
uguale nei contenuti.
E’ con infinita tenerezza che
mi sono avvicinata al testo, avendo sempre in mente il monumento che mi fece
piangere quando me lo trovai davanti: Re di Puglia. Quel “Presente” ripetuto
all’infinito mi risuonava in cento dialetti e suoni diversi nella memoria e mi
stringeva il cuore… Così ho immaginato una asciuttezza emozionale e simbolica
del “contenitore” che circondasse la realtà quotidiana e spietata di quella
trincea un po’ assopita, dove Boemi e Italiani si scambiavano pagnotte e
sigarette in una stasi grigia, su una montagna a sua volta grigia, e brulla,
silente. D’improvviso tutto cambia.
I Croati sostituiscono i
Boemi con ferocia guerriera e tattica inaspettata. Il dramma si consuma
rapidamente… fino al soldato Maia che rifiuta di compiere l’ispezione. Un
finale agghiacciante e potente, un’accusa eterna alla follia dei potenti.
Semplice e violento atto
d’accusa universale che anche oggi è sulla bocca di chi muore innocente, di chi
non può scegliere il senso del suo agire e dell’essere lì, in quel momento. Per
rendere un sentimento e un’emozione così potente, ho chiesto la collaborazione
di un artista, Giuseppe Salvatori, per la sua sensibilità intellettuale e
l’eleganza del segno, e perché è capace, come me, di una lacrima di pietà per
un piccolo soldato sopraffatto dagli eventi. Anche la montagna, quindi, con le
sue vene dorate, partecipa al dolore e subisce la violenza degli uomini.
Mi sento a questo punto di
ringraziare sinceramente tutti i collaboratori, da Franco Micieli a Emiliana
Paoli, a tutti gli amici e i tecnici del teatro.
Mi auguro che l’intenzione di
rendere protagonista il sentimento e l’emozione sia ciò che arrivi al pubblico.
Perché resti nel cuore di tutti un unico sentimento: la conquista della pace.
Per il mondo.
Simona Marchini
NOTE SULLA SCENOGRAFIA
Ho immaginato — ho visto —
una scena di superfici in successione i cui profili dentati costituiscono di
per sé un'invalicabilità, l'angoscia d'un orizzonte negato alla consolazione
dell'occhio.
La visione vera di un cielo
buio rovesciato con la doppia funzione di sipario e sudario, ma anche bocca
crudele: ferita e feritoia insieme, nel racconto breve di un'alba tragica.
Una scena dallo spazio
interdetto ad ogni movimento, ad ogni speranza, quasi senza narrazione, da qui
il profilo/muro della montagna che, come corpo offeso, è percorsa e irrorata da
arterie aurifere: tracce di scavo della conquista di postazioni preziose per
l'opera di difesa e attacco nel dominio delle altezze, ma infine teatro di
sacrifici assurdi e inaccettabili.
Più sotto, scoperta, la
trincea, in cui si aprono stanze come bocche di solitudine; il perimetro nella
cui nudità si consuma il racconto d'un dramma universale: il conflitto di
uomini semplici chiamati alla paura, la stessa che sembra perpetuarsi nella
storia fino a noi e che qui si trasfigura nel luogo umanissimo e disperato di
una trincea. Giuseppe Salvatori