Coro Teatro Verdi
maestro del coro PIETRO PERINI
Pavlova International Ballet Company
coreografie SVETLANA PAVLOVA
concertatore al pianoforte DAMIANO MARIA CARISSONI
costumi Sartoria teatrale Bianchi
scenografie NIVES STORCI
capo-macchinista FRANCESCO ZINI
luci GIAMPIETRO NOZZA
elettricista MARCO CARMINATI
assistente di palcoscenico EMANUELE AGLIATI
sartoria ERMINIA CASTELLETTI,
LUIGINA DAMINELLI e ANTONIETTA NAVA
trucco ERMINIA MAZZOLENI
acconciatura SILVIA ROSSI
Associazione Istituto scolastico Sistema
fiori Berbenni Marcello - Fiorista
regia VALERIO LOPANE
Contributo ingresso 15 € – Per info e prenotazioni:
www.mayrdonizetti.altervista.orgtutti i giorni, dalle ore 13 alle ore 16, tel. 035 315854 –
mayr.donizetti@gmail.comCari abbonati ed amici,innanzitutto «Grazie!»: grazie a tutti voi per aver dato vita ad una bellissima ed entusiasmante cornice alla “nostra” Turandot, per aver regalato a noi ed agli Artisti un’emozione con la quale non potevamo iniziare meglio la nostra 38ª Stagione operistica!
Ed ora la Stagione propone il primo dei quattro grandi titoli verdiani che caratterizzeranno il nostro percorso celebrativo del 200º anniversario della nascita del Cigno di Busseto: La forza del destino (è possibile scaricare liberamente il libretto alla pagina
www.librettidopera.it/zpdf/forzades.pdf), un’opera – secondo una definizione che ben hanno in mente gli appassionati del melodramma – «straordinariamente difficile, oltre che complessa come poche» e che rappresenta, quindi, una grande scommessa allo stesso tempo (ormai) doverosa ed affascinante.
L’aspetto vitale del titolo che vi proponiamo e che da sempre “rapisce” lo spettatore consiste nell’atmosfera particolarissima che pian piano si determina col rapsodico affastellarsi uno sull’altro di moltissimi luoghi comuni dell’immaginario popolare, nel contesto d’un ambiente storico anch’esso modellato su tale immaginario: la fuga notturna di due amanti contrastati e sorpresi dal padre di lei; l’espiazione in convento quando non addirittura in una grotta d’eremita tra fame e stenti; la guerra come parte quasi naturale del vivere civile (sì che l’accampamento militare con zingare, reclute, balli, tamburi e quant’altro diventa una sorta di succedaneo della piazza del paese durante la festa del santo patrono); la mensa per i poveri; processioni misticheggianti, battaglie, duelli, ferite mortali eppur sempre sanate (al contrario dell’anima viceversa sempre sofferente). Il tutto organizzato in forma di coloratissima, fantasiosissima successione di stampe popolari, simili a quelle davanti alle quali solevano affabulare i cantastorie sempre presenti nelle piazze principali dei paesi animati da occasioni festevoli, religiose e non.
Ma non è solo questa pur stupenda atmosfera variegatissima ed organizzata nei tipici pannelli del romanzo a dispense a fornire all’opera la sua “tinta” così peculiare, che soprattutto origina da taluni precisi moduli espressivi, il più importante dei quali è il punto di massima convergenza tra il teatro verdiano e la poesia di quel Manzoni cui Verdi guardava con vera e propria ammirazione, dove aulicità, nobiltà e larghezza proprie dell’alta oratoria rappresentano gli accenti essenziali, provvedendo poi l’andamento melodico e ritmico ad escludere quella retorica o quelle concessioni al sentimental-populistico di cui i versi manzoniani invece abbondano.
Come rapportarsi alla Forza del destino? È un titolone che fa paura ed ogni opera ha la sua storia e fa un po’ caso a sé, ma il timore reverenziale, di fronte a questo titolo, è quasi d’obbligo.
Il “caso-Forza” è certamente uno dei più intricati di tutto il catalogo verdiano e questo è spiegabile sia per motivazioni interne all’opera sia per cause – per così dire – esterne. Innanzitutto devo mettere in chiaro un dato: quando ho accettato di stendere queste note di regia come guida e chiarimento alle mie scelte di palcoscenico, mi sono ripromesso di essere totalmente sincero. Non voglio, quindi, nascondere il fatto che quest’opera si porti dietro una nomea non molto lusinghiera e questo non mi lascia certo indifferente. Capita un po’ in tutti gli ambiti: come per gli attori inglesi il nome «Macbeth» è impronunciabile, per noi Italiani che lavoriamo nel mondo del melodramma «Il potere del fato» – denominazione meno compromettente dell’opera in oggetto – pare non sia di buon auspicio. Curare dunque un suo allestimento mi rende un po’ preoccupato, ma ciò non significa affatto che questa fatica verdiana non sia di alta qualità, anzi, è forse una delle opere meglio concepite da un Verdi ormai pienamente maturo.
La piena consapevolezza verdiana – e così giungiamo al secondo motivo di complessità dell’opera – ci regala un dramma ampio, eterogeneo, molto strutturato e sapientemente rivisto nel tempo dal musicista stesso (essendo stato composto nel 1862 per il Teatro Imperiale di San Pietroburgo, oggi Teatro Mariinskij, ma successivamente rielaborato per la sua prima italiana al Teatro Apollo di Roma, oggi Teatro Tordinona, il 7 febbraio 1863). È il primo caso di una rielaborazione non profonda sul piano della quantità, ma assai significativa, poiché – secondo il grande operista – all’indomani della prima russa occorreva cambiare qualche cosa: il punto è comprendere perché ciò abbia portato ad alcune scelte rispetto ad altre. Verdi lasciò, infatti, tutti stupiti e sorpresi quando decise di ripensare il finale (la mutazione che resta più evidente), mantenendo invece altri aspetti considerati più fragili e quindi più suscettibili di rimaneggiamento: questi tratti possono essere facilmente sintetizzati nella scarsa unità di azione e di “clima”.
Dalla corrispondenza verdiana, però, comprendiamo quanto il musicista tenesse sia ad alcune figure apparentemente non adeguate al genere serio della vicenda (prima tra tutti la figura comica di fra Melitone) sia all’apparente spaccatura della trama su due piani narrativi: la vicenda personale di Donna Leonora da una parte e quella di don Alvaro e di don Carlo dall’altra. Questa frammentarietà interna, che si ricompone solo nell’ultima scena, ancora oggi è tangibile, ma, come pensa Verdi – vecchia volpe di teatro – diviene anche la chiave di volta di tutto il particolare spessore drammatico dell’opera stessa. Spesso si è riscontrato in questo complesso clima, autentica risorsa e non limite, un contatto con un altro capolavoro romantico italiano, questa volta non musicale ma letterario, ambientato sempre in un Seicento spagnolo in cui si aggirano frati venerati come santi, e preti meschini: in entrambi i capolavori ci si ritrova gettati tra processioni e guerre di successione e tra monasteri e luoghi inospitali (faccio evidentemente riferimento ai Promessi sposi di Alessandro Manzoni).
Il problema è quindi quello di rendere giustizia a questa complessità di elementi – narrativi ma anche musicali – senza far prevalere un aspetto su altri. Il mio primo intento è quello di assicurare una unitarietà alla poliedricità stilistica scelta dal musicista, cercando ispirazione nella fonte manzoniana per quanto attiene alle scelte di movimenti e di dinamiche dei personaggi, in cui i cantanti – proprio secondo le scelte letterarie di un romanzo in cui sono i semplici e gli oppressi a rivelarci il ruolo della Provvidenza – incarnano con semplicità di gesto e postura realistica il carattere specifico di ogni ruolo: nessuna magniloquenza, nessuna falsa posa scenica, ma quel realismo spontaneo che tutti amiamo ritrovare sia negli “umili” sia nelle grandi figure storiche che popolano il grande affresco manzoniano ed il suo corrispettivo verdiano.
Questo realismo, inteso come eco della realtà romanticamente stemperata e libera dal canone violento e scabro dell’estetica verista, troverà una sua continuità anche in un secondo elemento che propongo come ulteriore collante della mia lettura: la pittura seicentesca italiana, nella quale il realismo si manifesta con prepotenza sia nei temi della quotidianità (basti pensare ai Carracci), ma anche nei temi sacri, con effetto quasi blasfemo (qui penso a Caravaggio). Manca però un elemento: il clima di religiosità cupa, di sacrificio fisico, di ascetismo e di astinenza che sfiora persino la negazione della sensualità più innocente. Per tentare di evocare questo complesso di sentimenti aggiungerò alla pittura italiana anche la coeva produzione pittorica spagnola di El Greco e di José de Ribera: quest’ultimo, in particolare, attivo in Italia col nome di Spagnoletto, fonde le due scuole pittoriche e ne diviene il perfetto medio termine. Per chiudere i grandi temi dell’opera manca quello guerresco: la pittura fiamminga, sempre seicentesca, di Antoon Van Dyck e di Rembrandt caratterizzerà questo aspetto senza voler turbare un clima di fondamentale identità iconografica.
Secondo i miei intenti ne dovrebbe scaturire una lettura coerente e spontanea, dove l’iconografia sia discretamente presente e dove la schiettezza dei gesti dei protagonisti renda più comunicativo il dramma umano, sia esso mistico, guerresco, nobile, amoroso: vorrei, insomma, un dramma vero e vitale, proprio come lo intendeva Verdi. Mi auguro di riuscire in questa mia aspirazione e, se tutto si svolgerà senza intoppi e queste scelte saranno apprezzate, mi ricrederò anche sull’alone iettatorio dell’opera che, magari, incomincerà a portarmi fortuna.
(note di regia a cura del Prof. Valerio Lopane, regista e musicologo)
Il nostro cast vocale – selezionato dal direttore musicale Damiano Maria Carissoni – prevede, secondo la tradizione del Circolo, una formula in cui nuove voci si affiancano ad artisti che collaborano con il nostro Circolo in maniera continuativa ed a piacevoli ritorni.
Prima “voce nuova” è quella del soprano Marina Fratarcangeli: interprete di autentica fede verdiana e debuttante come Donna Leonora, è chiamata a sostenere un ruolo veramente oneroso che consta, infatti, di ben tre arie, tre duetti, un terzetto ed un temibile concertato.
Tra gli apprezzati ritorni dobbiamo annoverare il tenore Maurizio Comencini, il baritono Carlo Morini ed il baritono Michele Govi, rispettivamente don Alvaro, don Carlo e fra Melitone: acclamati dal pubblico la scorsa stagione, dovranno dare vita a personaggi complessi da ogni angolazione possibile, che richiedono, oltre a tecnica solida e voce generosa, anche sensibilità di fraseggio, soprattutto nei grandi ed ampi recitativi. Una menzione particolare merita il ruolo di fra Melitone, fatto di contagiosa vitalità, con richiami addirittura comici.
Un grazie sentito va poi al basso Luca Gallo: già Timur nella scorsa Turandot, sarà impegnato in un ruolo dove lo spessore ieratico deve essere congiunto con una sensibilità umanissima e quasi paterna, tratti stilistici della impervia parte del Padre Guardiano.
L’affiatamento con il Circolo rappresenta un vero punto di forza del mezzosoprano Angela Alessandra Notarnicola, dei bassi Giovanni Guerini e Gabriele Sagona e del tenore Livio Scarpellini: forti della loro professionalità ed esperienza scenica, saranno impegnati in ruoli cosiddetti “caratteristi”, ma fondamentali per rendere il vero spessore dell’opera.
Il Circolo dà poi il suo benvenuto, nel ruolo di Curra, al soprano Selena Colombera, voce segnalatasi brillantemente nelle nostre audizioni del mese di luglio.
La forza del destino non è esattamente una grand opéra, ma ha molto di questo genere, pertanto Giuseppe Verdi, anche se non dedica una pagina specifica al ballo, richiede un intervento coreografico per l’indiavolata tarantella (Nella guerra è la follia: atto III, scena tredicesima): ecco quindi che ritornerà, con il consueto professionismo, il Pavlova International Ballet Company con le coreografie di Svetlana Pavlova, ormai collaboratore storico del Circolo.
Per la prima volta siamo orgogliosi di ospitare il Coro Teatro Verdi, diretto ed istruito dal maestro Pietro Perini: essendo La forza del destino un’opera molto corale e “di massa”, non si poteva scegliere debutto più indicato per mostrare le potenzialità e la qualità di questo ensemble e del suo maestro.
Al concertatore al pianoforte Damiano Maria Carissoni ed alla sua interpretazione sarà, infine, affidata la funzione quasi trasfigurante di suggellare la complessa struttura musicale.