2013_12_14 Teatro Coccia di Novara TI HO SPOSATO PER ALLEGRIA

Sabato 14 dicembre 2013_12_14 ore 21.00 – Turno A 
Domenica 15 dicembre 2013_12_15 ore 16.00 – Turno B
Teatro Coccia di Novara
TI HO SPOSATO PER ALLEGRIA
di Natalia Ginzburg
PRIMA NAZIONALE
Con Chiara Francini e Emanuele Salce
e con Anita Bartolucci
Giulia Weber, Valentina Virando
Regia Piero Maccarinelli
Scene Paola Comencini
Produzione ErreTiTeatro30 di Roberto Toni

Ti ho sposato per allegria è una commedia in tre atti del 1965 di Natalia Ginzburg.
“Dov’è il mio cappello?”. Ti ho sposato per allegria comincia così. Comincia, sembra di capire, da un sorriso sfrontato e ironico dinnanzi all’impossibile. C’è un’impossibile famigliola, con tanto di suocera, cognatina e governante, tutti insieme a fare il teatrino delle proprie parti, dentro a un gioco di parodia che (segretamente) gioca con l’impossibile vocazione drammaturgia dell’autrice. Questo star sul filo (di seta, elegante e fragile) doveva essere il brivido preferito della Ginzburg che sfida tutte le regole della buona scrittura drammatica inventandosi un teatro delle assurdità. Approda a una forma apparentemente impropria (i monologhi fiume, divertentissimi e all’apparenza teatralmente impossibili) provocatoriamente, o meglio, sfrontatamente fragile e tuttavia, là dove pare disfarsi in frivolezza, farsi irresistibile.
Al centro di Ti ho sposato per allegria c’è appunto una ragazzina in pericolo che si è fatto donna e ha deciso, come conviensi a una donna, che era tempo di sposarsi. L’uomo che la sposerà avrà fatto un pensiero simile, forse, ma da un’altra prospettiva: la prospettiva adulta. Gli uomini nel teatro della Ginzburg mi pare siano tutti molto adulti. Ciò non impedisce loro di essere insensati, anzi, ma lo sono dalla prospettiva comicamente più greve di chi ragiona – o ci prova – sul senso della propria vita ricercando somiglianze: coi propri simili adulti normali.
Le ragazze della Ginzburg, invece, soffrono e splendono d’una vocazione per l’originalità, propria e altrui. La ragazza e l’uomo si vedono e poco dopo si sposano. Un matrimonio fatto per allegria. Ma poi il matrimonio si fa famiglia e con essa arrivano le regole, una delle quali è che bisogna essere uguali a tutte le altre famiglie. Nasce il gioco (divertentissimo e insieme triste) della “casa”. E con esso, per uguale allegria, la Ginzburg fa nascere il gioco del suo teatro.

Dalla pièce venne tratto, nel 1967, un film di Luciano Salce con Monica Vitti e Giorgio Albertazzi.

“…In tutto ho scritto, fino a oggi, dieci commedie. La prima nel luglio del '64, l'ultima nell'agosto dell'88. La prima per Adriana Asti, l'ultima per Giulia Lazzarini. Le altre che stanno in mezzo, per nessuno. La prima è Ti ho sposato per allegria; credo che sia la più allegra delle mie commedie.
L'intervista è l'ultima. La prima l'ho scritta subito dopo aver risposto a una domanda che una rivista di teatro rivolgeva agli scrittori: perchè non scrivete commedie?
Ho risposto che non ne scrivevo perchè non riuscivo a immaginare una commedia scritta da me senza subito detestarla. Era vero. Pensare a una possibile commedia mia mi ispirava un profondo malessere. Altri hanno risposto che non gli andava, adducendo motivazioni diverse. Subito dopo si sono messi a scrivere commedie. Così anch'io. Quella domanda di quella rivista ha generato numerose commedie.
In quei giorni, quando la rivista era uscita con le varie risposte, è venuta da me l'attrice Adriana Asti, che io conoscevo bene, e mi ha detto di fare una commedia dove lei potesse avere una parte. Le ho detto che lo credevo improbabile. Poi sono partita per la campagna. Qui ero sola e mi annoiavo e mi sono messa a pensare che specie di commedia potevo scrivere. M'incuriosiva vedere se quel malessere persisteva o spariva. Sul principio avevo in mente le seguenti cose: la faccia di Adriana Asti e il suo sorriso ironico; e il Teatro Carignano di Torino, dove ero stata per la prima volta quando avevo otto anni, a vedere una commedia che mi era sembrata magnifica: non ne ricordavo nulla salvo il titolo, Peg del mio cuore, e una ragazza sottile con un gran cappello di paglia. Forse per questo ho cominciato una commedia partendo da un cappello. Nelle prime battute compariva un cappello. Però si era trasformato in un cappello da uomo. Via via che scrivevo il Teatro Carignano spariva. Non sentivo nessun malessere. Di Adriana Asti ho fatto una ragazza sottile e gracile; era sottile e gracile ma l'ho fatta più sottile e più gracile e più piccola di quanto non fosse. Ne ho fatto una ragazza molto piccola, disordinata e randagia. Vedevo venir fuori una commedia allegra. Come mai fosse allegra, non lo so. Io non ero allegra. Ma forse veniva fuori allegra per quel grande e ilare stupore che uno prova quando fa una cosa che aveva comandato a se stesso di non fare mai. O forse veniva fuori allegra perché la scrivevo in fretta, senza piegarmi a respirare malinconie, o fermandomi a respirarle solo per brevi istanti. La scrivevo in fretta nel timore di non riuscire a concluderla. In fretta e per noia. Sapevo bene che non bisogna mai scrivere per noia: la noia è quasi sempre infeconda. Alla noia non si deve ubbidire. Però via via che scrivevo la noia spariva. L'ho finita in una settimana.
Quando uno scrive certe volte sta fermo, certe volte cammina e certe volte corre.
Questa volta avevo la sensazione non di correre ma di sdrucciolare. Mi affidavo al caso, come quando ero molto giovane, quando scrivevo alla cieca e senza sapere dove diavolo volessi arrivare. Mi sembrava di essere ripiombata nell'infanzia.
Era una commedia con dei monologhi interminabili. Pensavo che nessuna attrice mai sarebbe riuscita a impararli a memoria. Come commedia, mi sembrava del tutto inutilizzabile. Quella casa dove stavo era nuova e non avevano ancora messo il telefono. Per andare a telefonare bisognava camminare una ventina di minuti fra sentieri e vigne. Il telefono pubblico era in un bar sulla strada. La teleselezione non c'era e per telefonare a Roma bisognava prendere un appuntamento telefonico e aspettare diverse ore. A Adriana Asti ho telefonato più volte. Una volta per dirle che avevo finito una commedia ma i monologhi erano troppo lunghi e lei non poteva impararli a memoria. Mi ha detto di spedirgliela e gliel'ho spedita. Dentro a quel bar e camminando fra quelle vigne nell'andare e nel tornare, ho scoperto che a quella commedia che avevo scritto per noia e in fretta e sdrucciolando e affidandomi al caso, in realtà ero in qualche modo legata e speravo molto che qualcuno la recitasse.
Un'altra volta ho telefonato e Adriana Asti mi ha detto che la commedia le andava bene e che i monologhi tanto lunghi non le creavano nessun problema...”
Natalia Ginzburg - Luglio 1989

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