1955_10 Marco Enrico Bossi trent'anni dopo da Ricordiana

Ricordiana NUOVA SERIE Rivista mensile di vita musicale by Cordara

Anno I    N. 8    Ottobre 1955

Una copia L.  100 Abb. annuo (10 numeri) 

Direttore PIETRO MONTANI Redattore RICCARDO ALLORTO 

Editore C. RICORDI & C.

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Marco Enrico Bossi trent'anni dopo

Con Martucci e Sgambati, Sinigaglia e Perosi, Marco Enrico Bossi, dotato di eminenti qualità assimilatrici e ricreative, e scuretto da una preparazione tecnica indiscutibilmente solida, fu in Italia uno degli ultimi rappresentanti di un mondo musicale in declino, ed uno dei primi di un mondo musicale in divenire. Declinava, con Bossi, il mondo ad un tempo semplice ed austero dei maestri artigiani, dei direttori di cappella, degli organisti saliti in gran fama per le acrobatiche agilità, non meno che per le proverbiali celie di cui sapevano ornare le tavole dei prelati dopo le sacre funzioni domenicali. Agli alberghi di lusso ed al codazzo dei fanatici di un divismo non ancora imperante, Bossi preferiva le passeggiate tranquille sui colli ove si gode un panorama incantevole, ove civetta una chiesina microscopica e si respira l'aria pura. All'urlo delle platee melodrammatiche anteponeva l'esercizio delle aule conservatorili e il salmodiare delle cantorie e il dialogare raccolto e serafico, alla Franck. con i figli, gli amici, i discepoli. Galantuomo d'antico stampo, ma galantuomo dolce remissivo accomodante. Artista d'alti ideali, ma artista ingenuo, quasi un fanciullo che a volte si sorprendeva, in uno col poeta suo Luigi Orsini, a piangere di commozione sulle melodie da lui medesimo composte ed eseguite.

L'altro Bossi, quello del mondo in divenire, si identificava tutto e solo nell'ambito esclusivo della creazione, ov'egli appariva un solitario, un aristocratico, sinistro, un ribelle ansioso di camminare contro corrente. Camminare contro corrente, a quei tempi, voleva dire rifiutarsi al teatro e dedicarsi esclusivamente, ostinatamente alla produzione sinfonica o sinfonico-vocale o strumentale da camera e chiesastica. Voleva dire ritornare alle forme cadute in disuso, agli strumenti caduti in abbandono, alle figure della storia e della agiografìa generalmente-dimenticate. 

Giovanna d'Arco e Santa Caterina erano gli spiriti che più trattenevano la niente mistica di Marco Enrico Bossi. Il poema sinfonico-vocale, la messa, l'oratorio, il mistero, la cantata, il concerto strumentale, la sonata, il trio erano gli stampi impettiti e solenni che fra tutti egli vagheggiava. 

Visioni bibliche, agiostiche, naturistiche, interpretazioni di Pascoli, di Milton e dei testi liturgici furono i traguardi cui tese l'arte sua dopo alcuni timidi tentativi teatrali dell'epoca giovanile. Correvano, in quella, gli strepiti per Cavalleria e per Tasca; ma il Bossi, irriducibile, meditava sul Canticum canticorum e sul Paradiso perduto.

Non crediamo che il teatro fosse mai stato nelle  aspirazioni del  Bossi più maturo e consapevole. Non crediamo neppure, per la verità, ch'egli vi avesse rinunciato cosi a cuor leggero come affermano taluni biografi. I detti tentativi giovanili, e più l'inedito Angelo della notte, e più ancora un incompiuto Don Chisciotte lasciano sospettare che la cetra bossiana, almeno ai suoi primi risvegli, avrebbe volentieri sacrificato anche per la scena lirica. Non lo fece, se non in trascurabile misura, e non importa giudicare se fu o non fu saggio consiglio. Certo un diverso e più potente richiamo, a un dato punto, dovette-violentemente deviare il flusso delle copiose ispirazioni. Nacque, tale richiamo,, dalle straordinarie facoltà bossiane di esecutore all'organo, strumento ch'egli conosceva per filo e per segno nei più capillari segreti meccanici ed espressivi. L'organo per Marco Enrico Bossi era una vera e propria orchestra da ridurre obbediente nelle mani prodigiose. Una orchestra docile e colorita da convocare in proporzioni mutevoli, in effetti cangianti, famiglia per famiglia, timbro per timbro. Un'orchestra da comandare velocemente e da dominare pacificamente^ senza il gesto intermediario, senza il podio statuario, senza la bacchetta magica. Veramente può dirsi che per quella sola « sua » orchestra privata, Bossi delirava e faceva delirare gli ascoltatori. Poiché nell'organo che la suscitava, e ch'egli risolleva alla dignità di strumento divino, Bossi non soltanto coglieva la gloria che lo costrinse a viaggiare il mondo  dall'uno all'altro continente, suggerendogli di riportare l'industria organarla nazionale alla perfezione delle antiche  origini;   ma nell'organo  stesso,  in  quanto  destinato  a  una  speciale letteratura edificatrice, e in quelle che sono le sue peculiari possibilità di registrazione  e  di costruzione polifonica,  Bossi scoprì l'intima  gioia  di  creare,, quindi l'incitamento per le centinaia di composizioni  strumentali che,  pure; esulando sovente dall'ambito della molteplice tastiera, a questa si riconducono sempre in un sottile orientamento di ideale simpatia. Non altra, forse, la ragione che fa affiancare il Bossi ai pochi musicisti coevi ostentatamente rinunciatari nel campo melodrammatico.  Non  altra, d'altronde, la  ragione che  a trent'anni dalla prematura morte del maestro — avvenuta sul transatlantico-che dall'America lo riportava in patria — fa ritenere un poco accademica la produzione di lui, siccome rivolta a conciliare i frutti della canora spontaneità italiana con le forme rigide e scientificamente elaborate del sinfonismo nordico. Vero e che Bossi concertista d'organo e compositore extra teatrale incontrò i primi clamorosi successi e i primi editori solleciti in Germania. Lassù egli doveva apprendere i dogmi d'una scienza della strumentazione che faceva immediatamente sua. Lassù egli doveva assimilare il gusto degli sviluppi contrappuntisticamente estesi e delle armonizzazioni complicate: quel gusto appunto — sorridiamo oggi — che nei confronti con la massa degli orecchiabili operisti contemporanei faceva apparire il Bossi quale un audace precursore, un isolato, uno sdegnoso.

Sorridiamo oggi. Poiché in realtà Marco Enrico Bossi, visto oggi, non risulta che un elegante e perfino impreziosito ricercatore di amalgamo timbriche, che sul terreno strumentale ha saputo riguadagnare in breve ciò che gli Italiani avevano perduto o trascurato, salve poche eccezioni, in un secolo di operismo prevalentemente vocalistico. 

Disse bene Arrigo Boito quando, ringraziando l'amico organista della sua offerta d'una Sonata per violino e pianoforte, dichiarava di ammirarla «in tutti i modi: con gli occhi, con le orecchie e soprattutto con la mente». 

E disse meglio Verdi — tenendosi alquanto alla larga — scrivendo sullo stesso pezzo all'autore: «Io ho ammirato con Boito, ch'era qui, il suo lavoro, specialmente il principio del Primo Tempo che ha una frase potente e bellissima; e se dovessi dire che tutta la composizione in generale mi è parsa troppo basata sulle dissonanze, Ella potrebbe rispondermi: - Perché no? La dissonanza come la consonanza sono elementi costituenti la musica ; io di preferenza adopero la prima. - Ed Ella avrebbe ragione. D'altra parte: perché avrei torto io?».

In altra occasione, per un ulteriore fascio di composizioni inviategli dal Bossi, ancora Giuseppe Verdi si esprimeva con deferente cordialità, seppure con altrettanta grazia egli entrasse diritto nel nocciolo della questione, che risolveva a modo suo, dicendo cioè tutto che egli intendeva dire col minor numero possibile di parole: « ...Inutile le dica — così Verdi — che tutte queste composizioni sono fatte in modo magistrale... Nel Concerto per organo e orchestra devono esservi effetti arditissimi e potenti ».

Non più in là andò Verdi nel suo contentino. Non avrebbe potuto, non l'avrebbe voluto. Una parola di più avrebbe sicuramente suonato male, forse avrebbe significato un elogio di meno, ciò che l'ingegno magnifico e l'angelica devozione del Bossi non meritavano. « ...Devono esservi effetti arditissimi e potenti », immaginò il Bussetano arrendevole. E si fermò lì.

FRANCO  ABBIATI


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