RICORDIANA Anno 1 N.9 Novembre 1955
Antonio Vivaldi
Quando il presente non faceva rimpiangere il passato, i musicisti, coll’atto di morte, sparivano pure dalla vita musicale. Cosi fu per Claudio Monteverdi, del quale si ricordava come cosa lontana, quasi leggendaria, il solo Lamento di Arianna; eppure al suo tempo fu considerato un Dio: il divino Claudio. Era forse preferibile che la vita continuasse noncurante di chi non è più su questa terra, anziché impagliare i morti, come si fa ora. Gli imbalsamatori sono abili, scaltri, ma l'idolatria abolisce il controllo su ciò che in realtà rappresenta l'idolo, sia pure un pelo della barba del Profeta o un dente d'elefante.
Da tre quarti di secolo si innalzano, spesso con materiale molto friabile, i piedistalli sui quali i geni musicali dovrebbero toccare il cielo.
E' sorta in tal modo una autentica torre di Babele, o, per meglio dire un conglomerato di torri di Babele in cemento armato (armato di malafede) vuote all'interno per potervi insediare l'amministrazione di tutte le speculazioni musicali. La vera torre di Babele non raggiunse il cielo perché gli uomini finirono col non comprendersi più, esattamente come accade nella Babele musicale: l'incomprensione ha fatto perdere ogni più elementare senso di pudore.
Le esumazioni ebbero inizio il giorno in cui l'arte contemporanea vestì il saio del mendico, quando cioè a Beethoven era succeduto, erede universale, Johannes Brahms, autore della decima Sinfonia.
La musicologia divenne allora l'unica risorsa per i compositori falliti, i quali per non fallire una seconda volta, vestirono alla moda corrente i compositori del passato. Qualora li avessero lasciati com'erano, urtando contro il gusto corrente, avrebbero forse subito la stessa sorte dei compositori che rappresentano veramente il nostro tempo.
Le rielaborazioni, gli adattamenti e perfino le edizioni accademiche di opere antiche contribuirono a chiudere un'altra via d'uscita alla musica contemporanea la quale, più vicina all'antica che a quella dell'Ottocento, avrebbero potuto allargare un po' gli orizzonti del disorientato ascoltatore. Invece, facendo di Palestrina un maestro da chiesa di campagna, di Monteverdi (vedi le elaborazioni di Vincent d'Indy) un Wagner alla casalinga e di Vivaldi un classico del primo Ottocento, insomma l'approfittare dei morti per penetrare nella già circoscritta vita musicale dei concerti e del teatro, doveva, per forza di cose, annullare ogni possibilità di influire sulla evoluzione non della musica ma di coloro che credono di amarla.
Antonio Vivaldi più degli altri si prestava a equivoche interpretazioni, che già Giovanni Sebastiano Bach aveva dato l'esempio, soltanto che le sue elaborazioni si dice che da principio non citasse il vero autore del Concerto per quattro clavicembali (e di altre opere vivaldiane delle quali s'era invaghito) rispettavano naturalmente lo stile dell'epoca, e poi Bach era Bach. Negli ultimi vent'anni, direttori d'orchestra, musicologi, compositori si gettarono addosso al prete rosso per servircelo poi, malamente digerito.
La vita di Antonio Vivaldi è avvolta in quel mistero che a Venezia è sempre stato conseguenza del pettegolezzo. Vivaldi era prete ed era rosso, singolare contrasto! Non diceva Messa perché ammalato, tanto ammalato che alcune dame pietose quanto belle, si sacrificavano accompagnandolo nei viaggi e tenendogli costantemente compagnia. La città mormorava, tanto mormorava che non prima del 1724 (cioè all'età di circa 50 anni) si è potuto nominarlo (e della sua nomina non esistono documenti irrefutabili) « maestro » alla Pietà.
Antonio Vivaldi visse a cavallo di due secoli, ma leggendo del suo incontro con Carlo Goldoni, si ha l'impressione di vivere a Venezia al tempo di Baldassarre Galuppi e di Alessandro Longhi.
Nelle Memorie il Goldoni racconta della sua visita al Vivaldi e descrive molto vivacemente il prete rosso, le sue reazioni, la infatuazione per la sua allieva: madamigella Giraud. Egli si fa trovare assorto nella lettura del breviario che getta irriverentemente per terra quando il Goldoni lo entusiasma improvvisando i versi per un'aria adatta alle qualità canore di madamigella Giraud. Viaggiò quasi sempre per la rappresentazione dei suoi melodrammi, eppure la sua fama di violinista era ormai volata molto lontano e di molto aveva preceduto quella del compositore, ma allora i compositori viaggiavano più dei « virtuosi » perché questi dipendevano da quelli.
Nella vignetta del non più enigmatico frontespizio del “Teatro alla moda” di Benedetto Marcello, Antonio Vivaldi è raffigurato come angelo che suona il violino e sta ritto sul timone per guidare la barca del famoso impresario Orsatto, anzi con le ali la sospinge, la « fa andare avanti ». Ciò nonostante la sua attività di compositore melodrammatico è secondaria, « pratica » : essa gli dava da vivere.
La nota con la quale, in una partitura autografa, dichiara di aver scritto in « cinque giorni » un certo melodramma, è un'altra prova dell'esistenza di due Vivaldi, uno alla moda che forniva le opere necessarie per alimentare i teatri che allora si nutrivano esclusivamente di novità [ndr il cosiddetto repertorio nasce molto tardi alla fine dell’800] , l'altro bizzarro, originale e di una fecondità non compromessa dai bisogni della vita quotidiana.
Nei Concerti per orchestra (non c'era ragione per comporli con l'orologio alla mano) la sua fantasia è molto più sbrigliata che nelle opere teatrali, non sappiamo però, né ci interessa saperlo, con quanta rapidità siano stati composti: certo, sono parecchi.
I titoli: Concerto delle stagioni, La Notte, Il Riposo e molti altri ancora, non sottintendono un programma, ma corrispondono piuttosto a una visione squisitamente poetica, talvolta pittorica, non pittoresca. Se si pens'a alle opere di Arcangelo Corelli (1653-1713) e dei suoi seguaci, non si riesce a scoprire da dove discenda Antonio Vivaldi.
II prete rosso vive, come tutti gli innovatori, fuori del tempo ; il suo stile è quello della sua epoca, e lo ha imposto a quasi tutta la musica del XVIII secolo.
Non minuetti graziosi, né le solite gighe, bensì nuovi ritmi, inaspettate forme di espressione.
Ascoltando per esempio il concerto La Notte si sente che è notte profonda, impenetrabile. Non si può analizzare Vivaldi, non si deve rompere l'incanto abbandonandosi a una inopportuna e sterile retorica. Trattenere il respiro, ascoltare religiosamente si deve, e infine ringraziare le dame pietose che l'hanno aiutato, non vogliamo sapere come, a creare tanti capolavori.
Chi voglia curare l'edizione delle musiche di Antonio Vivaldi, non deve illudersi di fare grandi scoperte, né di risolvere gravi problemi, basta non cedere alla tentazione di trasformare Vivaldi in un Beethoven, alterando le armonie, i valori ritmici, ecc., ecc.
Un musicista che interpreta Vivaldi deve essergli legato spiritualmente, comprendere la sua musica e per pubblicarla non occorre il medico chirurgo, basta l'umile copista, fedele, attento e diligente.
Guai ad aggiungere legature che queste alterano il fraseggio.
L'arco due secoli fa era meno lungo di quello d'oggi, perciò il carattere lirico di molta musica vivaldiana viene appunto determinato da questo materialissimo particolare.
E' stolido anacronismo l'aggiunta delle legature per il fatto che oggi si fabbricano archi più lunghi di allora.
Il prete rosso è rosso perché brucia ed è prete perché è un mistico, ma egli è anzitutto umano e non ha bisogno di collaboratori, bensì di servitori.
Va ascoltato con gli occhi chiusi e la mente aperta.
Ma poi? Quale può essere presentemente la sua influenza?
Certo Vivaldi è un primitivo, una forza primordiale.
Non esiste di lui alcun scritto sulla sua estetica.
Claudio Monteverdi al principio del XVII secolo annunziava e difendeva la sua « seconda prattica » rispondendo al canonico Giovanni Maria Artusi il quale non era critico di professione bensì un teorico che sapeva di musica e temeva che il Monteverdi compromettesse l'esistenza del suo trattato “L'Arte del contrappunto” (1586-1589).
Il prete rosso lo immaginiamo invece con l'orecchio contro il violino per meglio ascoltarsi, per la gioia di vibrare col suo istrumento, noncurante di ciò che la musica fu prima di lui, e sarà dopo la sua scomparsa.
L'inizio dei concerti ha per lui valore tematico e così pure il ritorno dell'idea principale ; il resto è riservato al suo piacere come se nessuno l'ascoltasse, e sono arpeggi e scale che si ripetono come cibo preferito da un buongustaio metodico e intransigente.
Oggi i Concerti di Vivaldi, nella loro veste originale, riscuotono in tutto il mondo molti consensi perché con la loro vivacità e spensieratezza reagiscono alla severità dei classici, pur non rappresentando una reazione contro checchessia.
Mentre l'arte musicale nostra contemporanea è combattuta dalla speculazione degli orecchianti e dalla sapienza dei neo-pitagorici, l'arte di Vivaldi offre con la sua meravigliosa vivacità un ristoro agli assetati di musica, rinfresca lo spirito tanto che la mente riposata può concedersi il lusso di pensare e di chiedersi perché dopo Riccardo Wagner non ci sia più pace nel mondo dei suoni.
Vivaldi ci ammonisce : egli visse in pace con se stesso, tanto che i suoi compatrioti lo han lasciato morire miseramente a Vienna il 28 luglio 1741.
Il funerale costò 19 fiorini e 45 soldi e suonarono « le campane dei poveri ».
Articolo di GIAN FRANCESCO MALIPIERO
RICORDIANA Anno 1 N.9 Novembre 1955
Il "nuovo stile" scenico nel teatro wagneriano a Bayreuth
Da parecchi anni molte riviste musicali tedesche, specialmente quelle « d'avanguardia », e talune d'altre nazioni vanno elogiando il rinnovamento scenografico e mimico promosso nelle rappresentazioni al teatro wagneriano di Bayreuth dai nipoti di Riccardo, figlioli di Sigfrido, e soprattutto da Volfango. L'opportunità di conoscere e giudicare tale innovazione e insieme il desiderio di risentire i drammi di Wagner nella sede da lui fondata e curata, mi hanno indotto al viaggio estivo e riposante.
La lettura di opuscoli informativi, dei giornali locali, e le più insistenti voci del pubblico, subito avvertivano che in realtà non l'integrità dell'arte da Riccardo stessa fissata nei vari elementi drammaturgici traeva tanta gente nella provinciale cittadina onorata da un tal tempio, ma il « superamento », la « modernizzazione », la « personale interpretazione » scenica.
Appunto la « novità » incuriosiva i nuovi pellegrini, li elettrizzava e disponeva a letizia e soddisfazione.
Indiscussa ammissione del fatto nuovo. Tale inclinazione non è propria della maggior parte del pubblico che si reca a Bayreuth, ma diffusa, si sa, ovunque, ed incoraggiata e goduta. D'altro canto non mancano là e altrove resistenze, opposizioni, sdegni.
Per veder chiaro bisogna formulare un preciso e generale quesito:
quale convinzione storica ed estetica guida al radicale mutamento dell'apparato d'un melodramma, sia antico, sia moderno, che nei tre elementi, il verbale, il musicale e lo scenico, è di fatto una unità, e ha la sua data storica, come momento dell'artista e del gusto sociale?
Questa proposta di ragionamento non ha di solito, e non potrebbe avere, una ragionata risposta. Per lo più si dice: — Oggi così usa, così si fa, si vuoi fare così. — E sono affermazioni del gusto mutevole. Da parte la moda, occorre toccare il problema perenne, e sostenere i concetti di unità, di intangibilità dell'opera d'arte, di fedeltà interpretativa, opposti ai preconcetti rotanti attorno al « moderno sentire e volere », i quali suggeriscono considerazioni soltanto pratiche e, spesso, commerciali.
Non si ha qui spazio per trattare il vasto problema (che ho svolto, mi permetto di ricordare, nel saggio incluso nel volume “Tempi e aspetti della scenografia”, Torino, lite, 1955), ma solo per scegliere fra le molte osservazioni le impressioni durante l'udizione dell'Anello del Nibelungo, (riferite nella Stampa del 9, 11 e 17 agosto 1955), quelle che meglio mostrano la consistenza del così detto « nuovo stile » o « svecchiamento » clell'inscenatura minuziosamente prescritta e approvata da Riccardo, e i risultati.
Affermando il principio dell'intangibilità, non si pretende, è ovvio, la rinuncia o quegli odierni meccanismi atti a vincere le difficoltà ed evitare le manchevolezze, talvolta enormi, che gli inscenatori di ottant'anni fa non poterono dominare.
Si esige che la complessa concezione dell'artista creatore non sia abolita, né falsata.
Qui, a Bayreuth, dove l'esecuzione vocale e strumentale era ottima, e fedele l'interpretazione, la rappresentazione parve impropria, conturbante, nemica.
Per lo più soppresse le azioni dei personaggi, cangiati gli atteggiamenti e le figure, sostituite alle pittoriche immaginazioni di Wagner quelle di tempi posteriori, dei quali egli sarebbe stato il profeta, l'unità drammaturgica risultò infranta.
Fra le felici soluzioni di ardue inscenature è da citare nella Vigilia la rappresentazione del Reno. Striature verdi e gialle luminosamente proiettate su cortine di veli danno l'immagine della corrente. Le Ondine vagano in varia altezza, mai emergendo, scendono, salgono invisibili gradini, corrono, giuocano, inseguono Alberico. Ed ecco perfezionato uno spettacolo difficilmente realizzabile. Una piacevole vista, ma del tutto contrastante col sentimento del dramma, è invece quella del funebre corteo di Sigfrido. Una lunga teoria binaria di uomini va lentissima verso il lontano fondo del palco, tutta avvolta, soffocata, in un cinereo grigiore; è come un pastello tenue, morbido, delicato. E perciò fa a pugni con la dinamica energia dell'espressione della musica, con l'epico, solenne, eroico, fragoroso epicedio. Sgradevole turbamento dell'attenzione.
Questa regia è talvolta minuziosa, realistica, nell'esporre gli oggetti necessari, per esempio quelli della fucina di Mime, talaltra priva di indicazioni, come nel primo atto della Valchiria; quasi al buio, non c'è tavolo, sgabello, panca; un piccolo braciere fa le veci del camino: non si sa donde i personaggi escano; Hunding non è armato; soppressa la porta «della primavera». E il frassino? Striature. L'elsa? Una lampadina elettrica d'un quarto di candela. Così tutta l'azione è annullata. Brunnhilde appare poi, non balzante di roccia in roccia, ma ritta di fronte a Wotan. Monotonia delle positure. Al terzo atto, non « culmine di montagna rocciosa », non « foreste di pini », non armi alle Walkirie, e niente fiamme attorno a Brunnhilde assopita. Soltanto veli scarlatti.
Tanto la musica guizza, tanto la scenografia s'appiattisce.
A diecine s'annoterebbero altre trasgressioni.
La rappresentazione oscilla fra l'osservanza e la trascuratezza delle disposizioni di Wagner, fra il verismo e l'allusivo; meglio, fra il visibile e l'incomprensibile. Equivoca, s'illude di trascendere con l'astrazione quelle necessarie finzioni, la cui materialità Wagner già elesse segni della fantasia e della poesia sue.
Il « nuovo stile » domina i costumi, i trucchi, la mimica.
Ciarpame vien considerato l'armamento e il vestiario prescritto.
Via, i cimieri, gli scudi, le corazze. Le cinque Walkirie non han neppure la lancia. Quando Siegfried ridesta Brunnhilde non ha da « tagliare dalle due parti dell'intera armatura i fermagli ad anello della corazza e togliere gli schinieri». Il palpitante momento della femminile rivelazione è ridotto alla lesta scucitura d'una tunica. Wotan non porta mai il cappello, né nasconde l'occhio. Siegfried, anziché tener Nothung infilzata nella cintura e sempre a portata della mano, l'abbandona ora qua, ora là, quasi distrattamente. Hunding è del tutto inerme. L'esclusione dei bellici strumenti non solo sguarnisce gli eroi, ma anche priva la partitura d'un singolare contributo rumoroso. Infatti i Guerrieri di Gunther non hanno scudi, e perciò non « cozzano le armi con fragore » e ritmicamente.
E non si sa perché si faccia così.
Articolo di ANDREA DELLA CORTE
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