Prof. Stefano Fulvio Lo Presti Musicologo |
Domenica 5 dicembre 2010, ore 15.30
Teatro Donizetti - Bergamo
Gaetano Donizetti
Don Pasquale (Parigi, 1843)Melodramma in due atti su libretto di Giovanni Ruffini
Interpreti principali:
Paolo Bordogna, Eugenio Leggiadri Gallani (Don Pasquale)
Christian Senn (Malatesta)
Linda Campanella (Norina)
Roberto Iuliano, Ivan Magrì (Ernesto)
Coro e Orchestra Bergamo Musica Festival Gaetano Donizetti
Direttore d'orchestra Stefano Montanari
Regia Francesco Bellotto
Scene Massimo Checchetto
Costumi Cristina Aceti
Datore luci Claudio Schmid
Maestro del Coro Fabio Tartari
In coproduzione con: Teatro Sociale di Mantova, Fondazione Teatro Coccia di Novara
Don Pasquale (Parigi, 1843)Melodramma in due atti su libretto di Giovanni Ruffini
Interpreti principali:
Paolo Bordogna, Eugenio Leggiadri Gallani (Don Pasquale)
Christian Senn (Malatesta)
Linda Campanella (Norina)
Roberto Iuliano, Ivan Magrì (Ernesto)
Coro e Orchestra Bergamo Musica Festival Gaetano Donizetti
Direttore d'orchestra Stefano Montanari
Regia Francesco Bellotto
Scene Massimo Checchetto
Costumi Cristina Aceti
Datore luci Claudio Schmid
Maestro del Coro Fabio Tartari
In coproduzione con: Teatro Sociale di Mantova, Fondazione Teatro Coccia di Novara
Allegato commento al programma di sala gentilmente inviato da Fulvio Stefano Lo Presti
DON PASQUALE (TEATRO
DONIZETTI, BERGAMO)
D
A N A P O L I A P A
R I G I E V I E N N A
15/12/2010
di Fulvio Stefano Lo Presti
Gli
anni Quaranta dell'Ottocento, ultimo decennio dell'itinerario artistico e
dell'esistenza di Gaetano Donizetti (1797-1848), vedono emergere in fulgida
sequenza nella prima metà i capolavori concepiti per le scene parigine e
viennesi, mentre diventano più sporadiche le creazioni destinate ai teatri
italiani. Se, tuttavia, Donizetti non si fosse affrancato pur traumaticamente
dalla “sua” Napoli, difficilmente questa radiosa stagione internazionale che
conclude la sua carriera teatrale avrebbe potuto sorgere all'orizzonte.
Nell'autunno
1838 Donizetti lascia la capitale del Regno delle due Sicilie in cui era
approdato nella primavera 1822, nel momento in cui Gioachino Rossini preparava
già i bagagli per quel viaggio che con vari giri lo avrebbe condotto a Parigi.
In quei sedici anni si concentrava quasi tutta la carriera, intensa, travagliata,
sofferta, sorprendentemente feconda, del quarantenne Bergamasco. Anche per
Donizetti, viaggiatore consuetudinario instancabile dal Settentrione alla
Sicilia, era dunque giunta l'ora di levare le tende senza voltarsi indietro
verso l'agognata meta di Parigi.[i]
Ha ormai la quasi certezza Donizetti che la
direzione del Real Conservatorio di San Pietro a Majella, di cui ha assunto
l'interim dopo la morte di Nicola Zingarelli nel 1837, gli è definitivamente
preclusa nonostante le ripetute facili promesse fattegli.[ii]Come
se non bastasse gli è piombato addosso il divieto, emanato da re Ferdinando II
in persona, di far rappresentare Poliuto,
composto per il Teatro San Carlo, al cui soggetto “sacro” - trattandosi della
vicenda di un martire cristiano - non si addice, secondo l'intransigente morale
borbonica, un ambito “profano” quale la scena di un teatro. Ma la mancata
andata in scena dell'opera espone il compositore al pagamento di una penale al
teatro per inadempienza contrattuale!
Persino
la casa di proprietà di via Nardones - il lussuoso appartamento in cui si è
trasferito nel maggio 1837 - lo spinge ora alla partenza.[iii]Dopo
la morte dell'amata Virginia nell'estate del 1837 gli sembra così vuota!
Ricordi troppo dolorosi lo circondano tra quelle pareti e lo fanno soffrire, la
porta di una certa stanza non trova la forza di aprirla.[iv]
Malgrado
la popolarità di cui gode presso il pubblico napoletano o, forse, proprio a
causa di essa, Donizetti non è riuscito a guadagnarsi il favore di una parte
dell'intellighenzia partenopea, né a vincere la melliflua ostilità dei “vedovi”
di Vincenzo Bellini, vale a dire la congrega di Francesco Florimo -
condiscepolo del Catanese nel Conservatorio di cui nel frattempo è diventato
archivista e poi sarà bibliotecario - ispiratore di una “fronda” che trama in maniera subdola contro il foresto e funge da lobby volta a indurre Ferdinando II a non nominare Donizetti
direttore del Conservatorio. Il loro candidato, che finirà per averla vinta, è
il regnicolo Saverio Mercadante, anch'egli ex allievo del Conservatorio, sul
quale Florimo ha premuto con insistenza affinché presentasse la sua
candidatura. All'inizio Mercadante, installato dal 1833 nella “strategica”
Novara con l'incarico di Maestro di cappella della Cattedrale, non è infatti
troppo lusingato dai vantaggi di trasferirsi a Napoli per occupare un posto
certo di alto prestigio ma a notevole distanza dalle piazze settentrionali in
cui fa rappresentare le sue opere.[v]
Ferdinando
II - sul quale non è facile ancora oggi esprimere un giudizio spassionato - a
dispetto di un lato amabile della sua persona e di tante buone intenzioni, non
è che un monarca assoluto illuminato in una parte più e altrove meno, bigotto nel senso che gli manca
una visione “laica” dei suoi compiti di sovrano, animato da un benevolo
paternalismo che fa breccia nel cuore del popolo semplice e bonaccione e dei
più conservatori e tradizionalisti tra i suoi sudditi ma che non gli cattiva
necessariamente la fiducia di tanti intellettuali (tra cui i “nefasti”
liberali) e di chi ha una visione più lungimirante della realtà, e, poiché
resterà sul trono per ventinove anni e mezzo, fino alla vigilia della caduta,
repentina simile a quella di un castello di carte, del vasto Regno delle Due
Sicilie, è arduo compito non imputargli la più grande responsabilità nella fine
ingloriosa di una monarchia che aveva da tempo il proprio avvenire alle spalle.[vi]Che
abbia simpatia e stima per Donizetti e che ne apprezzi la musica, è indubbio.
Ma già nel 1834, quando aveva conferito da poco a Donizetti la cattedra di
contrappunto e composizione al Conservatorio, era scoppiato lo “scandalo” di Maria Stuarda e Ferdinando si era dovuto
scomodare in prima persona per sbarrare a quell'opera “sediziosa” la strada
della scena, visto che i suoi zelanti censori avevano tardato a emettere un
verdetto (o non avevano osato farlo).[vii]Adesso,
con questo nuovo “guaio” del Poliuto
e i fastidi della nomina del successore di Zingarelli, chissà che il sovrano
non tragga un gran respiro di sollievo vedendo partire Donizetti per Parigi.
Questo
secondo viaggio di Donizetti in Francia ha avuto una lunga maturazione, poiché
dal rientro a Napoli nella primavera 1835, dopo aver trascorso a Parigi quasi
tre mesi tra gennaio e marzo per mettere in scena Marino Faliero al Théâtre-Italien, il compositore ha ardentemente
desiderato di ritornare in quella capitale.
«Parigi
naturalmente attirava Donizetti non soltanto perché la censura francese era più
di manica larga. Era il prestigio, che poteva derivargli da un successo a
Parigi, a coronamento della sua carriera di compositore, il principale
richiamo. E, da un punto di vista squisitamente pratico, non disdegnava la
prospettiva, che gli si apriva nella capitale francese, di più pingui compensi
e di più favorevoli rapporti con gli editori. Né perdeva di vista l'aspetto
della più ampia protezione accordata alla proprietà musicale rispetto
all'Italia, dove per più di un decennio aveva dovuto lamentare sia la perdita
di profitti che le manomissioni della sua musica ad opera di editori pirati.»[viii]
Dal
suo ritorno a Parigi, alla fine di ottobre 1838, Donizetti non perde tempo:
stabilisce una serie di contatti, si impegna fattivamente in vari progetti.
L'enorme entusiasmo destato in anticipo dalla prima parigina di Lucia di Lammermoor - data al
Théâtre-Italien nel 1837 - gli ha in un certo senso preparato il terreno. Si
occupa, per cominciare, delle riprese in quello stesso teatro di Roberto Devereux e dell'Elisir d'amore[ix]e
parallelamente porta avanti le trattative con l'Académie Royale de Musique
(Opéra) già avviate da Napoli.
Sin
da principio Donizetti - buon sangue bergamasco non mente - è stato un
lavoratore instancabile, un vero e proprio workaholic[x]e
non è certo a Parigi che i suoi ritmi di attività sono destinati a rallentare.
Mentre procede alla laboriosa metamorfosi in grand opéra di Poliuto, che diventerà Les Martyrs - prima non facile
collaborazione, come non saranno agevoli le successive, con il celebre
librettista Eugène Scribe nonché primo cimento all'Académie Royale - altri
lavori ingombrano il suo tavolo. Uno di questi è Le duc d'Albe, secondo grand opéra su libretto di Scribe, concepito
anch'esso per l'Académie Royale ma mai completato (e ciò più per circostanze
esterne che per volontà di Donizetti).[xi]
Malgrado
Donizetti lavori contemporaneamente a diversi telai, il 1839 può sembrare un
anno di minore impegno, in cui non dà nessuna opera nuova. Per trovare un anno
altrettanto “infruttuoso” nella carriera del Bergamasco bisogna risalire
all'ormai lontano 1825, l'anno critico dello sbarco in Sicilia dove lo
attendeva la poco esaltante esperienza di Maestro di Cappella per una stagione
al Teatro Carolino di Palermo. È pur
vero che Les Martyrs, già completati
a metà maggio, avrebbero potuto andare in scena nei mesi successivi, anziché
attendere la primavera 1840, senza una serie inenarrabile di lungaggini,
ritardi e intoppi, non contando i tempi e la complessità di preparazione degli
spettacoli all'Académie Royale. Purtuttavia, nell'estate 1839 va in scena una
prima donizettiana: si tratta della versione francese “alleggerita” di Lucia, Lucie de Lammermoor.
Snellire alquanto Lucia e
francesizzarla si era reso necessario per adattarla alle modeste risorse del
Théâtre de la Renaissance, un teatro privato che viveva per così dire alla
giornata non potendo contare su sovvenzioni dello Stato. Lucie segnò uno dei momenti memorabili nell'effimera esistenza
della Renaissance, poiché il successo, ben al di là delle aspettative più rosee
di Donizetti, la mantenne in cartellone per vari mesi a teatro esaurito.[xii]
La
perentoria affermazione di Lucie alla
Renaissance genera un nuovo contratto con questa. Gli stessi librettisti
dell'adattamento francese di Lucia,
Alphonse Royer et Gustave Vaëz, forniscono a Donizetti L'Ange de Nisida, che il Bergamasco musica mentre compone La fille du régiment per l'Opéra-Comique
ed è alle prese con l'interminabile preparazione dei Martyrs.[xiii]
Preceduti
in febbraio dalla briosa e esuberante Fille
du régiment, sono finalmente varati in aprile Les Martyrs, primo grand opéra donizettiano. La lunga e fortunata
carriera, in particolare in Francia, della Fille
si inizia con un mezzo successo, mentre il felice esordio dei monumentali Martyrs all'Opéra, se divide i critici
(e sono più quelli che fanno pollice verso),[xiv]
conquista il pubblico. Ma, a dispetto dei meriti e ... degli incassi, Les Martyrs non erano destinati a
resistere a lungo sulla scena, anzitutto perché ne era stata acclamata eroina
Julie Dorus-Gras, che aveva un'acerrima rivale in Rosine Stoltz, “amata e
amante giovane” del nuovo direttore dell'Opéra, Léon Pillet.
La
simultanea presenza su varie scene parigine del prolifico “invasore”
oltramontano ha intanto di che alimentare i peggiori, non ingiustificati timori
del “protezionista” Hector Berlioz, che nel Journal
des Débats lancia un grido di allarme: «Non potremo più parlare dei teatri
lirici di Parigi, ma dei teatri di Donizetti.»[xv]
Nel
frattempo, travolto dal fallimento, il Théâtre de la Renaissance aveva
definitivamente calato il sipario. Impossibile dare L'Ange de Nisida altrove. Fu, tuttavia, una felix culpa, per prendere in prestito la celebre frase di
Sant'Agostino: senza l'appuntamento mancato dall'Ange con la scena, non avrebbe visto la luce La favorite.
Nel
giugno 1840 Donizetti parte per l'Italia, passando per la Svizzera, dove si
trattiene per una vera e propria vacanza più che meritata, mentre il sospirato
soggiorno italiano non è che una parentesi di poche settimane trascorse tra
Milano e Bergamo e tra vari impegni. Un viaggio a Roma per mettere in scena Adelia è rimandato (e così Adelia), poiché in agosto lo richiama a
Parigi Pillet a cui serve una nuova opera al più presto, ma non Le duc d'Albe, che, non incontrando il
gradimento di Rosine Stoltz, resterà accantonato (e incompleto).
All'inizio
di settembre Donizetti fa ritorno a Parigi e si rimbocca subito le maniche. Se
si deve andare in scena in dicembre, non c'è tempo per scrivere un'opera ex novo. La soluzione più conveniente,
che riscuote il favore della Stoltz, è quella di rifondere su un soggetto
nuovo, rispondente alle esigenze dell'Opéra (compreso l'irrinunciabile
balletto), l'ineseguito Ange de Nisida.
Ai librettisti dell'Ange, Royer e
Vaëz, si affianca provvidenzialmente Scribe, e dalla “crisalide” di quello
spunterà fuori La favorite. Basta un
mese a Donizetti per portare a compimento l'estenuante metamorfosi in grand
opéra dell'Ange. Bisogna però
rilevare che L'Ange è in notevole misura una sorta di cartone della
Favorite, in particolare il quarto
atto di quest'ultima che discende quasi tutto dai lombi della quarta parte
dell'Ange. Intanto Donizetti, a cui
non basta mai il carico di lavoro, trova il tempo per occuparsi
dell'allestimento di Lucrezia Borgia al
Théâtre-Italien.
L'acqua
fredda del battesimo della Favorite,
la sera del 2 dicembre 1840, non le sarà di ostacolo a diventare ben presto un
valore sicuro del repertorio francese (non mettendo in conto la popolarità
delle successive versioni italiane più o meno fedeli). La fortuna della Favorite aureolò meritatamente la sua
protagonista, Rosine Stoltz, che predilesse quest'opera (avendo in seguito
l'occasione di cantarla anche in Italia e in italiano). Ma La favorite è associata a un'altra maîtresse, quella di Donizetti: Madame De Coussy, moglie del suo
banchiere. Fu sotto l'ospitale tetto di Madame, prodiga verso il Maestro di
un'affettuosa amicizia, che Donizetti
trovò l'ispirazione di alcune tra le pagine più grandi del nuovo spartito.
Avviata
sul suo cammino La favorite,
Donizetti riparte per l'Italia. A Roma aspettano la posticipata Adelia, che ha composto parallelamente
alle prove della Favorite. Là
Donizetti incontra per la prima volta il soprano Giuseppina Strepponi,
scritturata per la stagione e già illustratasi in parecchi ruoli donizettiani.
Taluni si sono dilettati, tra ieri e oggi, a ricamare su questo incontro tra il
Maestro e la futura signora Verdi numero 2,
spingendosi incautamente a dare per scontata un'occasionale liaison, che sembra invece da escludere.[xvi]
La
prima di Adelia andò in scena nel febbraio
1841 tra violenti tumulti, dentro e fuori del teatro, estranei ai meriti
dell'opera. La forte aspettativa per la nuova opera aveva infatti indotto
l'avido impresario del Teatro Apollo Vincenzo Jacovacci a vendere più biglietti
dei posti disponibili. Questo “pioniere” dell'overbooking finì conseguentemente in prigione benché per una sola
notte e le sorti di Adelia si
risollevarono con le rappresentazioni successive. Ma Adelia, pur con innegabili pregi, resta una creazione minore nel
catalogo donizettiano.
Tra
marzo e la metà di agosto Donizetti è di nuovo a Parigi, relativamente
inoperoso. Da un lato conduce trattative per opere destinate a Milano e Vienna,
dall'altro compone un Miserere dedicato
a Papa Gregorio XVI e mette la parola fine a un atto unico comico, Rita ou Le mari battu, che aveva
probabilmente cominciato a comporre nel 1839. Ma alla deliziosa Rita toccherà pazientare fino al 1860
per vedere le luci della ribalta all'Opéra-Comique.
Dopo
un soggiorno in Germania, la fine dell'estate lo vede a Milano. A Parigi ha
iniziato a scrivere il melodramma che inaugurerà la stagione di Carnevale e
Quaresima 1841-42 del Teatro alla Scala, Maria
Padilla, su libretto del veterano Gaetano Rossi.[xvii]La
Padilla è una sorta di seguito non
premeditato della Favorite dell'anno
precedente.[xviii]
Le
stagioni liriche del primo Ottocento offrono anzitutto prime assolute o prime
locali, mentre trovano ancora uno spazio limitato le riprese dal repertorio. Maria Padilla va in scena la sera di
Santo Stefano 1841[xix]e,
in virtù del suadente bel canto romantico di cui è intessuta e della solida
drammaturgia, si impone per 23 rappresentazioni, tante quante ne totalizza con
pari se non maggiore successo il secondo titolo, Saffo di Giovanni Pacini, nuova per Milano. L'ultima novità, Nabucodonosor, ben presto Nabucco, dell'ancora poco noto Giuseppe Verdi,
poiché chiude la stagione, non ottiene che otto rappresentazioni, ma il suo
impatto sulla scena è paragonabile allo scatenarsi di un ciclone e fa
impallidire i pur cospicui meriti delle opere precedenti. Tant'è vero che verrà
ripreso nella stagione di Autunno 1842 totalizzando 57 rappresentazioni.
Donizetti, che si è trattenuto a Milano per finire la semiseria Linda di Chamounix attesa a Vienna, ha
ascoltato con attenzione il Nabucodonosor
di quel giovane Maestro e non manca di apprezzarne e gustarne l'impetuoso
ardore, ma con maggiore attenzione il giovane Maestro avrà ascoltato e stimato
la Padilla di Donizetti.[xx]
Quando
non manca molto alla partenza per Vienna, Donizetti riceve da Bologna un
pressante invito a recarvicisi per dirigere la prima italiana dello Stabat Mater di Rossini. Difficile
sottrarsi a una tale richiesta quando è Rossini in persona a rivolgergliela.[xxi]
A
Bologna, dove venticinque anni prima ha concluso la propria formazione
musicale, Donizetti dirige di fronte a un pubblico imponente tre esecuzioni
dello Stabat Mater il 18 marzo 1842 e
i giorni seguenti.[xxii]
All'ultima assiste Rossini e il trionfo è condiviso dai due Maestri, che si
separano abbracciandosi commossi fino alle lacrime. A Vienna Donizetti avrà
presto l'occasione di dirigere di nuovo lo Stabat
rossiniano.
La
capitale dell'impero austriaco riserva un'accoglienza calorosa a Donizetti, il
quale non deluderà certo i nuovi ospiti. Linda
di Chamounix va in scena al Kärntnertortheater (Teatro di Porta Carinzia)
il 19 maggio sotto la direzione dell'autore e l'entusiasmo nel teatro
affollatissimo è al colmo. Quale Linda, Eugenia Tadolini dispiega le risorse
più cospicue di cantante e interprete e Donizetti è il primo a riconoscerlo. Al
favore del pubblico si unisce quello della famiglia imperiale che assiste alle
rappresentazioni successive.[xxiii]Linda sarà presto applaudita a Parigi,
Londra e in altre città grandi e piccole. Donizetti scrive nel frattempo un'Ave Maria a cinque voci dedicandola
all'imperatore Ferdinando I.
Ciò ch'era nell'aria si concretizza
senza troppi indugi: alla fine di giugno a Donizetti, «non senza sua lieta
sorpresa»,[xxiv]è
conferita dall'imperatore la nomina di Maestro di Cappella e di Camera e Compositore
di Corte, ricoperta un tempo da Wolfgang Amadeus Mozart. Al prestigio
dell'incarico si accompagnano i vantaggi di un invidiabile stipendio e di sei
mesi di libertà per continuare a esercitare
«il mestiere del povero scrittore d'opere»[xxv](adesso
non più povero però). In precedenza Donizetti aveva rifiutato la direzione del
Conservatorio di Bologna offertagli ripetutamente da Rossini.
Da
Vienna riparte presto per Milano e ritorna a Bergamo. In agosto ridiscende alla
volta di Napoli, dove al San Carlo Maria
Padilla, «benché massacrata da non riconoscersi dalla censura in modo
orrendo»,[xxvi]
infervora il pubblico e la corte. Gaetano non è uso a pavoneggiarsi - in
verità, per dare lezioni di modestia, potrebbe salire in cattedra - ma che la
sua fresca nomina a Wiener
Hofkapellmeister procuri un travaso di bile ad alquante “vecchie” di San
Gennaro non può dispiacergli soverchiamente. Quelle stesse “vecchie”
esulteranno a loro volta, a meno di un anno e mezzo di distanza, dopo
l'insuccesso sancarliano di Caterina
Cornaro in assenza di Donizetti rimasto a Vienna.
Poi
Donizetti lascia Napoli diretto a Parigi e lungo la strada scrive al fraterno
ex condiscepolo bergamasco Antonio Dolci: «Vado a Parigi per le traduzioni di Padilla e Linda; Dio sa cos'altro ci farò.»[xxvii]E
invece, nota William Ashbrook, «avrebbe trovato moltissime altre cose da fare,
iniziando senza saperlo uno dei periodi più intensi ed estenuanti di tutta la
sua prolifica carriera»,[xxviii]quell'ultimo
capitolo che Robert Steiner-Isenmann
chiama appropriatamente «Krönung eines
Lebenswerks» [coronamento dell'opera di una vita].[xxix]
A
Milano, durante la preparazione della Padilla,
ha conosciuto un giovane librettista siciliano, Giacomo Sacchero, che ha
scritto per Federico Ricci Corrado
d'Altamura, accolto con grande favore alla Scala nel novembre 1841 (e
promesso a una bella carriera internazionale).[xxx]Sacchero
gli fornisce nel 1842 il libretto di Caterina
Cornaro (liberamente basata su La
Reine de Chypre di Jacques Halévy [1841]), che Donizetti compone a Parigi
tra la fine del 1842 e la primavera 1843. Inizialmente prevista per Vienna, Caterina Cornaro, verrà dirottata in
seguito a Napoli.[xxxi]
Il
18 gennaio 1844 al San Carlo Caterina
Cornaro concluderà nell'amarezza di un fiasco immeritato il catalogo
donizettiano. Se Donizetti fosse sceso a Napoli per accompagnare sulla scena la
sua creatura, questa, nonostante le vessazioni dei soliti, immarcescibili
censori borbonici, avrebbe probabilmente incontrato una sorte migliore.[xxxii]Risollevatasi
momentaneamente a Parma nel 1845, la Cornaro
finirà dimenticata fino al tardivo riconoscimento del XX secolo. Ma
ritorniamo all'autunno 1842.
A
Vienna destina invece, rinfrescando un “vecchio” progetto, Maria di Rohan, fosca tragedia di cappa e spada, amore violento e
morte, all'epoca di Luigi XIII e Richelieu, anticipatrice alla guisa di Donizetti del Ballo in maschera verdiano.[xxxiii]Ma
prima della Rohan (cominciata in
abbozzo alla fine di novembre e terminata al principio di febbraio 1843) ha un
impegno più incombente da onorare: un'opera comica per il Théâtre-Italien.
Donizetti
ha scelto senza troppi indugi di rispolverare il soggetto di un cavallo di
battaglia prerossiniano, Ser Marcantonio di
Stefano Pavesi su libretto di Angelo Anelli (1810), tra l'altro ancora in
repertorio. Tant'è vero che - casuale coincidenza - è stato ripreso a Vienna in
agosto quando Donizetti era già andato via.
Appropriarsi
di un soggetto altrui non desta scalpore a quest'epoca (e non soltanto nella
pittura), per non dire che è quasi una consuetudine. Il Marcantonio di Pavesi ha peraltro un precedente nella farsa Diritto e rovescio di Francesco Gardi
(1801). Lo schema dell'intreccio è arcisfruttato e affonda le radici nella
commedia dell'arte e più indietro ancora nel tempo e consiste nelle progettate
nozze da parte di un anziano scapolo, che si illude di raggiungere la felicità
con una sposa giovane, le cui aspirazioni - è comprensibile - sono
diametralmente opposte.[xxxiv]
Il
suo agente parigino nonché factotum Michele Accursi gli ha procurato un
librettista “debuttante” nella persona dell'esule mazziniano genovese Giovanni
Ruffini, il cui fratello più giovane Agostino aveva collaborato con Donizetti
nel 1835 per modificare il libretto di Marino
Faliero di Giovanni Emanuele Bidera. Sulla collaborazione tra il poeta alle
prime armi tiranneggiato e il Maestro bergamasco che respira la polvere del
palcoscenico (Verdi più tardi non sarà meno tirannico con Francesco Maria
Piave) notizie di prima mano si possono leggere nella corrispondenza tra
Giovanni Ruffini e la madre in Italia.[xxxv]A
forza di riscrivere, tagliare, allungare, modificare, il docile Ruffini non si
ritrova autore della stesura finale (quando è quasi al termine dell'impresa,
riferisce alla madre: «sempre brodo lungo»; e gli ultimi versi lo fanno «sudare
sangue e acqua»)[xxxvi]e,
pur accettando il compenso che gli spetta (di cui ha un vitale bisogno), non se la sente di firmare il
libretto di Don Pasquale. Ruffini
tuttavia non abbandonerà subito il “tirannico” Maestro e gli scriverà ancora la
versione ritmica italiana del libretto di Dom
Sébastien di Scribe.[xxxvii]
«E
invece in quell'apparente massacro del testo poetico dobbiamo riconoscere un
Donizetti autenticamente drammaturgo, che ha piena coscienza delle regole del
teatro per musica e soprattutto sa adeguare le convenzioni poetico-drammatiche
alle proprie attitudini compositive.»[xxxviii]
Donizetti
concepisce Don Pasquale per il
formidabile quartetto di interpreti a disposizione formato dal soprano Giulia
Grisi, dal tenore Mario (che con la bella Giulia forma un tandem inseparabile
nella finzione come nella realtà), dal baritono Antonio Tamburini e dal basso
Luigi Lablache, quegli stessi, meno Mario e con Giovanni Battista Rubini (di
cui Mario ha preso nel frattempo il posto), che nel 1835, sulla stessa scena
del Théâtre-Italien, hanno incarnato i personaggi della tenzone a distanza tra
Bellini e Donizetti, tra I Puritani e
Marino Faliero.
Indulgendo
alle volte in un'amabile civetteria, Donizetti si vantava con gli intimi di
aver musicato in poco tempo taluni suoi spartiti. Che in undici giorni abbia
composto Don Pasquale è però vero
solo in parte, se si tiene conto che ci lavorava ancora mentre si svolgevano le
prove (ma fino a Verdi ciò era pressoché consuetudine). In ogni caso prima
della metà di novembre la partitura è per così dire completata e alla fine del
mese cominciano le prove. Prove che, interrotte o ritardate da malattie a turno
dei cantanti, procedono in un clima di glaciale se non ostile indifferenza da
parte dell'orchestra del Théâtre-Italien. Con l'eccezione di Donizetti e
Ruffini, pochi si aspettano che l'opera incontri successo. Ma scettici e
malevoli verranno smentiti con il clamore del trionfo decretato dagli
spettatori della prima. Bisogna credere al Journal
des Débats del 6 gennaio 1843 quando esordisce con l'ammissione: «De tous
les opéras écrits exprès pour le théâtre de Paris, Don Pasquale, est, après celui des Puritains, l'ouvrage qui a obtenu le plus de faveur du public pour
lequel il a été composé. Don Pasquale,
fait pour être chanté par Mme Grisi, Mario, Tamburini e Lablache, a obtenu un
plein succès le mardi 3 de ce mois. Plusieurs morceaux ont été redemandés.» [Tra
tutte le opere italiane scritte appositamente per il teatro di Parigi, Don Pasquale è, dopo I Puritani, l'opera che ha riscosso il maggior
favore da parte del pubblico a cui era destinata. Don Pasquale, composto per essere cantato da Madame Grisi, da
Mario, Tamburini e Lablache, ha ottenuto un successo totale il martedì 3 di
questo mese. Vari pezzi sono stati bissati].[xxxix]Ma
i critici parigini sono in prevalenza animali a sangue freddo e i più resistono
come possono all'entusiasmo del pubblico.
Don Pasquale è «l'opera comica più
celebre del Maestro, un capolavoro che se da un lato risponde a stilemi e a un
formulario risalente al secolo precedente, per altri versi è opera moderna,
molto diversa dalle altre. [...] è il risultato di un'enorme padronanza dei
mezzi drammaturgico-musicali raggiunti dal Donizetti maturo e, benché scaturito
come di getto dalla penna del Compositore, è frutto, in realtà, di un travaglio
creativo teso alla ricerca di un equilibrio perfetto fra testo e musica.»[xl]
Il
merito del successo spetta anche ai quattro superlativi interpreti, anzitutto
a Lablache, protagonista a pieno titolo,
che presta una voce con pochi confronti, una profonda intelligenza musicale e
una padronanza scenica irresistibile al vecchio scapolo donizettiano, eroe
romantico suo malgrado, poiché, pur diversamente dal radioso Elisir d'amore che lo precede di undici
anni, anche Don Pasquale è un'opera
buffa romantica.[xli]
E Lablache si mantenne fedele a questo ruolo
fino al congedo dalla scena avvenuto nel 1857. A loro volta la Grisi, Mario e
Tamburini rimasero a lungo attaccati ai loro personaggi rispettivi.
Don Pasquale è appena varato che già
Donizetti si prepara a ripartire: lo richiamano a Vienna le nuove funzioni alla
Corte imperiale. Ma prima di lasciare Parigi viene chiamato a far parte
dell'Académie Française in qualità di membro corrispondente.
Dopo
un viaggio estenuante, ritrova Vienna nella morsa di un inverno glaciale.
Colpito da febbre, è costretto a mettersi a letto, ma dopo tre giorni è di
nuovo in piedi e ha ripreso il lavoro. Deve tra l'altro ultimare Maria di Rohan per la stagione italiana
del Kärntnertortheater e a metà febbraio è cosa fatta. Così può cominciare a
dedicarsi al monumentale grand opéra Dom
Sébastien roi de Portugal, che in autunno aspettano a Parigi, e intanto
licenzia Caterina Cornaro destinata a
Napoli. Se Verdi, non senza una certa dose di vittimismo, chiamò anni di galera
il decennio da Nabucco a Rigoletto, Donizetti dal canto suo
avrebbe potuto con maggior ragione considerare anni di galera l'intera sua
carriera teatrale.
Maria di Rohan offre ad Eugenia Tadolini
un nuovo ruolo con cui cimentarsi alla grande, per tacere del tenore Carlo
Guasco e del baritono Giorgio Ronconi, destinato quest'ultimo a diventare un
memorabile Chevreuse in innumerevoli Rohan
date un po' ovunque. Il 5 giugno 1843 la Rohan va in scena «sotto la direzione dell'autore e alla presenza
della corte e della famiglia imperiale, accorsa al completo dalla villeggiatura
per assistere alla novità tanto attesa [...] il secondo trionfo di Donizetti
nella capitale asburgica.»[xlii]L'accoglienza
da parte del pubblico e dei critici viennesi è infatti unanimemente favorevole.
La “violenza” dell'amore, ineluttabilmente associato alla morte, raggiunge
un'apoteosi tragica nella Rohan, che
sospinge il melodramma romantico verso regioni inesplorate e suona come un
annuncio del dopo Donizetti.[xliii]
Un
progetto lasciato a mezzo è l'enigmatico «soggetto fiammingo»[xliv]
Ne m'oubliez pas, su libretto di
Vernoy de Saint-Georges (che in collaborazione con Bayard aveva scritto quello
della Fille du régiment), destinato
all'Opéra-Comique. Il libretto non è stato ritrovato e della musica, composta
da Donizetti probabilmente nell'estate 1843, sono rimasti sette numeri completi
di orchestrazione.
Dal
suo ritorno a Parigi a metà luglio, comincia per Donizetti la lunga via crucis
della preparazione di Dom Sébastien all'Opéra.
Il libretto dell'impervio Scribe mescola
con innegabile talento inventivo storia e finzione, trasformando il giovane re
portoghese, caduto in Africa nel 1578 vittima della propria crociata fanatica
contro il Marocco, in un semilibertario per quanto disilluso eroe romantico. In
un improbabile ma suggestivo sodalizio con il poeta-soldato Camoëns e Zayda,
nobile musulmana che egli stesso ha sottratto al rogo, Don Sebastiano finisce
stritolato negli ingranaggi dell'Inquisizione venduta al di lui cugino spagnolo
Filippo II. Un tale “pasticcio” storico dimostra in ogni caso che l'abile
librettista conosceva a sufficienza l'aggrovigliato periodo della storia del
Portogallo tra la fine del regno di Don Sebastiano e l'ascesa al trono
portoghese dell'unico erede legittimo rimasto: Filippo II di Spagna.
Manco
a farlo apposta, la grande macchina dell'Académie Royale che “macina”
lentamente - ma uno spettacolo va curato in ogni aspetto nei minimi dettagli -
non risparmia al Maestro complicazioni, contrattempi, contrarietà e ostacoli vari,
senza mettere nel conto i capricci e le ubbie di Madame Stoltz. Donizetti, a
cui è toccato per l'«immensa opera in 5 atti» - vera e propria fatica d'Ercole
- scrivere «sacchi di musica per canto e ballo»,[xlv]è
letteralmente estenuato e il clima quotidiano in cui si trova a dover lavorare
non gli è particolarmente propizio. Il male in agguato comincia forse a dare le
prime subdole avvisaglie. Se, come ha riferito il biografo Edoardo Clemente
Verzino, Donizetti si è realmente lasciato sfuggire le parole «Don Sebastiano mi uccide»,[xlvi]non
lo avrà fatto per atteggiarsi a vittima.
Dom Sébastien va finalmente in scena il
13 novembre 1843 all'Opéra. L'indomani il Théâtre-Italien accoglie la prima
locale di Maria di Rohan,
rimaneggiata per l'occasione. Due giorni dopo Donizetti riferisce a Dolci:
«Dirti quale dei due abbia meglio piaciuto non saprei, ma se gli applausi, se i
bis provano un successo ebbi tutto questo.»[xlvii]
Anche
misurato col metro della grandiosità degli spettacoli dell'Académie Royale, Dom Sébastien si impone in magnificenza
e impressiona. Il pubblico accorso è entusiasta. Quanto alla la critica, in
parte è anch'essa impressionata e favorevole, in parte fa del proprio meglio
per intiepidire gli ardori altrui. Ma anche l'ostile Berlioz sul Journal des Débats deve riconoscere, con
una certa dose di fair play, taluni
meriti del grand opéra donizettiano, elogiando tra gli altri brani la marcia
funebre del terzo atto (in seguito sfruttata sia da Liszt che da Mahler), e non
manca di far notare che il superbo adagio
del grande concertato del quarto atto ha dovuto essere bissato.[xlviii]
Donizetti
non abbandonerà Dom Sébastien, che
dedicherà alla regina del Portogallo, e lo sottoporrà a rifacimenti e
cambiamenti, tant'è vero che ne sono rimaste varie versioni. Una di queste è
quella cosiddetta viennese in italiano, priva del lungo balletto, che Donizetti
stesso diresse ma in tedesco nella capitale austriaca nel 1845.
Con
25 anni di mestiere alle spalle, il «gran Maestro» (così lo chiamerà Verdi)[xlix]detta
in questo “testamento” drammaturgico una lezione per i compositori coevi e a
venire. Dominando con padronanza il grand opéra (con cui sin dal 1835 ha ambito
di misurarsi), ne imbriglia la magniloquenza congenita e si districa
elegantemente e con inesauribile vena tra la diversità di situazioni, toni e
atmosfere che la vicenda di volta in volta gli presenta. L'invenzione rifulge
nella varietà dei pezzi solistici e degli insiemi, con una strumentazione
costantemente raffinata ed espressiva, consegnandoci momenti tra i più alti
della sua arte. Dom Sébastien non
deve temere il confronto con due imponenti esempi del genere che lo precedono, La Juive di Halévy (1835) e Les Huguenots di Meyerbeer (1836), in
compagnia dei quali non gli tocca sicuramente la parte del parente povero.[l]
I
suoi giorni di gloria erano contati: l'incessante travaglio di più di un quarto
di secolo, l'errare zingaresco di città in città e la spola tra Parigi e Vienna
degli ultimi anni, sono presto interrotti da un male inesorabile che ha il
sopravvento, la paralisi nervosa, la demenza, il buio di una mente che tanto
generosamente ha creato. Finisce internato in una clinica psichiatrica nei
dintorni di Parigi. Dopo mesi di crudeli sofferenze, lo riportano, ormai inerte
residuo di umanità, nella sua Bergamo natale e qui, appena cinquantenne,
troverà la sua tomba nella fatidica primavera del 1848.
Le
sue opere continueranno a essere eseguite fin negli angoli più remoti del
pianeta. Verdi, divenuto nel frattempo solo e pressoché incontrastato
dominatore dell'opera italiana, l'avrà spesso davanti fino al termine della sua
lunga esistenza quell'ombra di Donizetti, quasi come la statua del
Commendatore... [li]
Prof. Stefano Fulvio Lo Presti Musicologo
[i] Se nelle
lettere da Parigi Donizetti accenna talvolta a un suo probabile ritorno a
Napoli, non sappiamo quanto ne fosse convinto egli stesso. Può darsi che
volesse in questo modo tranquillizzare gli amici laggiù che curavano i suoi interessi,
ed anche il cognato a Roma, col sottintendere che non aveva l'intenzione di
mettere radici a Parigi.
[ii] Si legga al
riguardo la lettera all'amico vercellese ma veneziano d'adozione Agostino
Perotti della metà di giugno 1837. (Cfr.
Studi Donizettiani 4, Bergamo 1988, n. Z 239a, p. 32).
[iii]
«[...]l'appartamento, che ha acquistato in via Nardones 14, [...] è poco meno
che una residenza principesca: dispone di una vasta galleria per le feste, di
saloni, veranda, ampie camere e servizi igienici di prim'ordine. Donizetti vi
aggiunge il tocco di una carrozza per le passeggiate di Virginia e non
dimentica di scegliere personalmente la culla per il bambino prossimo a
nascere. Né l'una né l'altra saranno mai utilizzate.» (Samy Fayad, Vita di Donizetti, Milano 1995, pp.
221-222).
[iv] In varie
lettere scritte al cognato Antonio Vasselli, dopo la morte di Virginia,
Donizetti accenna alla porta della stanza di lei che non ha la forza di aprire
(cfr. Guido Zavadini, Donizetti. Vita - Musiche - Epistolario,
Bergamo 1948, n. 254 [31 agosto 1837],
p. 442, n. 263 [21 settembre 1837] p. 449, n. 279 [25 novembre 1837], p.
461).
[v] Delle sedici
opere composte da Mercadante tra il 1831, dopo il ritorno dalla Spagna, e il
1840, soltanto tre ebbero il loro battesimo a Napoli, mentre le altre furono
destinate a Milano, Torino, Venezia, Bergamo e Parigi. Delle undici successive
che videro la luce quando si era già insediato alla direzione del Conservatorio
di San Pietro a Majella, nove vennero composte per i teatri napoletani. (Cfr.: Thomas G. Kaufman, Catalogue of Mercadante's Operas. Chronology
of Performances with casts, in: Mercadante.
Bollettino dell'Associazione Civica «Saverio Mercadante», n. 1/1996,
Altamura 1996).
«Che vi fosse una forte opposizione alla nomina di Donizetti
alla carica era noto a molti in città. Nell'ambiente accademico più
tradizionalista, con l'inizio della carriera di Bellini, si era formata una
fazione antidonizettiana capeggiata da Francesco Florimo, la quale, scomparso
il vecchio Zingarelli, esercitava pressione sul ministro Santangelo perché a
sostituire il longevo rappresentante dell'antica opera napoletana venisse
chiamato Saverio Mercadante, non tanto perché ritenuto più meritevole (questo
non lo si disse mai esplicitamente), ma in quanto il maestro pugliese (ecco la
scappatoia) possedeva il requisito di essere un “regnicolo”, al contrario di
Donizetti, suddito austriaco. [...] però, suddito austriaco Donizetti non lo
era più, avendo da sedici anni lasciato la Lombardia; semmai, e a pieno
diritto, poteva considerarsi suddito di Ferdinando II, giacché nella sua
qualità di direttore dei Reali Teatri e di docente al Conservatorio svolgeva
mansioni statali. Per manifestare la loro avversione a Donizetti, i
gentiluomini del Conservatorio non avevano dovuto attendere la morte di
Zingarelli; essi la esternavano ricorrendo a piccole meschinità di ogni genere,
quale quella di ritardare [anche di alcuni mesi] il pagamento del suo
stipendio.» (Samy Fayad, op. cit, p.
244).
Donizetti stesso riferisce di tale ritardo nel versargli lo
stipendio in una lettera senza data dell'estate 1838 al cognato Vasselli (cfr. G. Zavadini, op. cit., n. 301, p. 479).
Per decidere di nominare Mercadante Ferdinando II indugiò fino
al 18 giugno 1840, quando Donizetti si trovava a Parigi da quasi due anni, ma
fino all'ultimo «Mercadante era quasi contrario a trasferirsi a Napoli, dove
non vedeva una convenienza economica ed artistica.» (Santo Palermo, Mercadante e Donizetti e l'affare del
Conservatorio di Napoli, in: Newsletter
n. 78 of The Donizetti Society / October 1999, Londra 1999, p. 15).
[vi] Nato a Palermo
nel 1810, Ferdinando II sale al trono nel 1830 alla morte del padre Francesco
I. Muore a 49 anni nel 1859. Quest'anno è caduto dunque il suo bicentenario, ma
a celebrarlo saranno stati soltanto i filoborbonici napoletani in compagnia di
altri nostalgici delle neiges d'antan.
Mi sembra eloquente il sottotitolo del recente, breve profilo
biografico del penultimo re Borbone di Roberto Maria Selvaggi - tracciato
peraltro con una certa indulgenza partigiana che sfiora l'agiografia: Ferdinando II di Borbone. Storia di un
sovrano napoletano. Trent'anni di regno tra progresso e reazione, Roma
1996.
Oserei dire che, senza volerlo, il Reale Teatro San Carlo ha
in un certo senso “festeggiato” il bicentenario ferdinandeo. Nel marzo e
nell'aprile di quest'anno sono andati rispettivamente in scena Maria Stuarda di Donizetti e il balletto
Giselle di Adolphe Adam. Ferdinando
in persona proibì l'opera donizettiana il cui contenuto politico e religioso
gli dispiaceva al massimo. Nella scena della confessione della regina scozzese
(che non può non essere una confessione laica, poiché la Stuarda confessa le
sue colpe a Talbot, cortigiano della regina Elisabetta, che non è un prete e
non è neanche cattolico, benché non rari registi odierni gli affibbino
addirittura una lunga tonaca gesuitica) si è visto benissimo che al termine
della confessione Maria riceve da Talbot la comunione. In materia di balletto
dettava legge la pia regina Maria Cristina di Savoia, prima moglie di
Ferdinando e monaca mancata, la quale, nonostante la grande avversione per il
teatro (in cui metteva piede soltanto per accompagnare il consorte), faceva del
suo meglio per “moralizzarlo”. I ballerini dovevano quindi essere quanto più coperti
e assumere pose quanto più castigate. Ora, l'edizione 2010 di Giselle ha destato scalpore per
l'apparizione in scena del primo ballerino, Roberto Bolle, completamente nudo.
Se interessa la mia modesta opinione, si è trattato di una combinazione di esibizionismo
e voyeurismo che nulla aggiungeva alla valenza artistica dello spettacolo, ma
la bacchettona Maria Cristina, a quasi centottant'anni di distanza dalla sua
“benefica” azione moralizzatrice, ha pienamente meritato questo tardivo
schiaffo sulla sua regale guancia.
[vii] Forse perché
la protagonista della Stuarda sarebbe
stata Giuseppina Ronzi De Begnis che, come si mormorava, era l'amante di
Ferdinando II?
[viii] William
Ashbrook, Donizetti. La vita,
traduzione di Fulvio Stefano Lo Presti, Torino 1986, p. 123.
[ix] Nello spazio
di tre settimane l'esito ottenuto sulla stessa scena da Roberto Devereux (27 dicembre 1838) è diametralmente opposto al
successivo dell'Elisir d'amore (17
gennaio 1839). Lo stesso pubblico, che va in estasi assistendo all'Elisir, ha riservato un'accoglienza
piuttosto fredda al Devereux «in
parte perché [...], dopo Lucia di
Lammermoor, si aspettava vocalità pirotecniche dello stesso genere.»
(William Ashbrook, op. cit., p. 128).
Fu per l'edizione parigina del Devereux che Donizetti compose l'ouverture con la parafrasi
dell'inno nazionale britannico, God save
the King, auspicando in tal modo di poter traversare la Manica e dare
un'opera a Londra. In tale direzione va probabilmente interpretata la dedica
alla regina Vittoria delle Matinées
musicales (1841). L'occasione, presentatasi nell'autunno 1841, sfumò principalmente a causa della mancata
collaborazione di Felice Romani, ma questa è un'altra storia.
[x] Maniaco del
lavoro.
[xi] Rimando chi
volesse approfondire l'argomento a quanto ho scritto in Sylvia prima di Léonor (con interferenze di un duca) e “Mon cher Monsieur Scribe”: una lettera
sconosciuta di Verdi, in: Journal 7
of The Donizetti Society / Donizetti and France a cura di Alexander
Weatherson e Fulvio Stefano Lo Presti, Londra - Bergamo 2002, pp. 144-175 e pp.
423-459.
[xii] «Nella Lucie [...] lo spartito può sembrare ad
una prima lettura superficiale una copia stanca della Lucia italiana. E invece cambia tutto. Accettando di non tradurre
in francese 'Regnava nel silenzio', Donizetti abbandona l'immagine di una
protagonista [...] che dal suo primo apparire dava segni di follia. [...] Nella
versione francese Donizetti sublima il sogno romantico e si rivela compositore
di una più grande modernità. Il musicologo sarà anche affascinato dal modo in
cui Donizetti come già Spontini, Cherubini o Rossini cerchi di conformarsi al
gusto francese. [...] l'introduzione del personaggio di Gilbert costituisce
forse il secondo elemento veramente originale. Gilbert non è decorativo come lo
sono Normanno e Alisa, [le cui funzioni riunisce nella sua sola persona,] ma si
impone come [...] il “vilain” che tradisce tutti e mente su tutto, personaggio
subdolo, perfido e intrigante, come lo sarà solo Jago in Verdi.» (Sergio
Segalini, Il “rêve” romantico di Lucie,
in: [Programma del] 23° Festival della
Valle d'Itria. Martina Franca, 25 luglio - 11 agosto 1997, Fasano 1997, pp.
38-39).
[xiii] Gli amici
lontani, pur assiduamente informati dalle sue lettere, temono sempre che
Donizetti “dissipi” le sue energie nei loisirs
parigini (come se il soggiorno parigino fosse per lui un equivalente degli
ozi di Capua). Una replica un tantino risentita del musicista la leggiamo nella
lettera a Tommaso Persico del 9 ottobre 1839: «Capirai che quando si ha tanto
da fare, non vi è tempo a fare il gallo né con vecchie, né con giovani;
tuttavia mi secco e mi diverto.» (in: Guido Zavadini, op. cit., n. 328, p. 503). Allo stesso corrispondente il 6 dicembre
1839 fa notare, riferendosi al soprano Almerinda Granchi (“candidata” per
qualche tempo al matrimonio col vedovo Donizetti, secondo voci smentite
dall'interessato): «La Granchi mi scrisse che qui ho una vecchia, che mi fa
regali enormi. [...] non ho bisogno di alcuno, e non ho una spilla da
chicchessia.» (in: Guido Zavadini, op.
cit., n. 330, p. 505).
[xiv] «Un Credo en quatre actes» [un Credo in
quattro atti], il noto parere di Hector Berlioz nel Journal des Débats del 12 aprile 1840 si riferisce però al libretto
di Scribe (cfr.: Le prime
rappresentazioni delle opere di Donizetti nella stampa coeva, a cura di
Annalisa Bini e Jeremy Commons, Milano 1997, p. 814). Sempre Berlioz, nella
stessa recensione, prima di maltrattare Les
Martyrs, irride il rigore dei censori napoletani ai danni di Poliuto, probabilmente ignaro che
Ferdinando II in persona - nipote guarda caso di Luigi Filippo d'Orléans - si
era preso il disturbo di vietarlo: « Il est difficile de deviner ce que ladite
censure a pu voir de dangereux dans ce drame inoffensif» [è difficile
indovinare ciò che la censura ha potuto individuare di pericoloso in questo
dramma inoffensivo]. (Ibidem, p.
811).
Resta il fatto che la famiglia reale francese - senza Luigi
Filippo che non era melomane - tenne ad assistere a Les Martyrs e la regina Maria Amelia di Borbone, zia per l'appunto
del re delle due Sicilie, ricevette poi a corte Donizetti accettandone la
dedica dello spartito dell'opera. Alla regina non dovette dispiacere, se lo
lesse, quanto aveva osservato tra l'altro l'anonimo recensore di Le Corsaire: «Le caractère général de
cette musique est celui auquel M. Donizetti nous a habitués; de la fraîcheur,
de la grâce toujours; souvent de la force et de la grandeur. [...] L'ensemble
en est profondément original et à la
hauteur des plus grands maîtres.» [Il carattere generale di questa musica è
quello a cui il Signor Donizetti ci ha abituati: freschezza e grazia sempre,
sovente forza e grandezza... L'insieme è profondamente originale e degno dei
più grandi maestri.] (Ibidem, p.
810).
[xv] Ripreso da:
William Ashbrook, op. cit., p. 133.
[xvi] Anche perché è
improbabile che, se la Strepponi non fosse diventata più tardi la seconda
moglie di Verdi, tali ipotesi e ricami avrebbero avuto ragione d'essere.
[xvii] «Benché il
testo di Maria Padilla venga
comunemente attribuito a Rossi,» - tiene a precisare William Ashbrook -
«sarebbe più esatto indicare anche il nome di Donizetti come coautore del
libretto.» (William Ashbrook, op. cit.,
p. 149). Lo dichiara lo stesso Donizetti in una lettera al cognato. (Cfr.: Ibidem).
[xviii] Maria Padilla
fu l'amante di Pedro il Crudele re di Castiglia, il cui padre, Alfonso XI il re
della Favorite, aveva avuto come amante Leonor de Guzman. Alla morte di Alfonso,
Leonor venne gettata in prigione e morì, a quanto sembra, strangolata dal
giovanissimo re (l'appellativo di crudele peraltro non era affatto usurpato). A
meno di vent'anni di distanza, il figlio di Leonor Enrique de Trastamara
detronizzò il fratellastro Pedro e lo fece uccidere e diventò re di Castiglia.
[xix] Il
Protomartire del 26 dicembre fungeva allora da “protettore” delle stagioni di
Carnevale e Quaresima.
[xx] Qui, dieci
anni prima di Rigoletto, un padre si
commuove al pianto della figlia, in un lungo e movimentato duetto, forse la
pagina più alta della Padilla. Chi oserebbe sostenere che 'Ah!
se ti restan lagrime - misera ancor non sei' sia meno ispirato e vibrante di
'Piangi, fanciulla, e scorrere - fa il pianto sul mio cor' di Rigoletto?
Il verdiano Charles Osborne, forte di una vasta conoscenza di
Donizetti, osserva: «The lengthy father-daughter duet, 'Padre, padre, oh rio
dolore', for Ruiz and Maria is positively Verdian in its intensity, its
affecting pathos, and its freedom of form. [... ]. This is an opera which
deserves to be heard more often.»[L'esteso duetto padre-figlia, 'Padre, padre,
oh rio dolore', per Ruiz e Maria è decisamente verdiano quanto a intensità,
commovente drammaticità e libertà formale... Questa è un'opera che merita di
essere ascoltata più frequentemente]. (In: Charles Osborne, The Bel Canto Operas of Rossini, Donizetti,
Bellini, Londra 1994, p. 285).
[xxi] «[Rossini] ha
puntato i piedi perché a dirigerlo sia Donizetti, “l'unico in Italia” dice,
“che possa farlo”[...]. Donizetti scrive al cognato: “Tu vedi che a simile
invito non si replica. Non voglio già dirigere, ché tremerei davanti a lui, ma
voglio essergli riconoscente”.» (Samy Fayad, op. cit., p. 301).
[xxii] L'occasione
non venne lasciata sfuggire da Verdi, che si recò a Bologna e fu poi accolto
cortesemente da Rossini. (Cfr.:
Claudio Casini, Verdi, Milano 1994,
p. 68).
[xxiii] Sin
dall'elegante ouverture, ricavata dal primo tempo del XVIII Quartetto per archi (1836), Linda, che in taluni momenti richiama La sonnambula di Bellini e sotto certi aspetti sembra anticipare Luisa Miller di Verdi, cattiva il
pubblico. «Musicalement, on admire le soin de l'orchestration [...], la
fluidité du discours musical [...], une grande fraîcheur dans l'invention
mélodique» [Sul piano musicale si ammira la cura nell'orchestrazione... la
fluidità del discorso musicale... una grande freschezza nell'invenzione
melodica]. In: Gilles de Van, Gaetano Donizetti, Parigi 2009, p.
134.
[xxiv] Guido
Zavadini, op. cit., p. 105.
[xxv] Ibidem, Lettera a Giovanni Simone Mayr ,
n. 25 [Palermo, 21 dicembre 1825], p. 244.
[xxvi] Studi donizettiani 1, Bergamo 1962,
lettera a Giovanni Ricordi, n. 94 (Z 439a) [Napoli, 28 agosto 1842], p. 88.
[xxvii] Guido
Zavadini, op. cit., n. 443 [Genova,
15 settembre 1842], p. 628.
[xxviii] William
Ashbrook, op. cit., p. 159.
[xxix] In:
Robert Steiner-Isenmann, Gaetano
Donizetti. Sein Leben und seine Opern, Berna 1982, p. 292.
[xxx] Il catanese
Giacomo Sacchero (1813-1875) era, guarda caso, prozio della nonna materna
dell'autore di questo scritto.
[xxxi] Dirottamento
resosi necessario dopo che Donizetti apprese, fortemente contrariato, che
un'altra Cornaro, quella di Franz
Lachner, era in procinto di essere ripresa a Vienna.
[xxxii] Oserei dire,
benché non occorra alcuna audacia per sostenerlo, che, ancora fino a Puccini,
era importantissima, per non dire indispensabile, la presenza attiva del
compositore durante le prove e alla prima di una nuova opera.
[xxxiii] La guisa ma anche la Guisa di Donizetti. Nell'autunno 1837 si accingeva a comporre, per
darlo alla Fenice di Venezia nel Carnevale 1837-38, «Un duello sotto Richelieu, una specie di Caterina di Guisa [di Carlo Coccia (1833)].» (Guido Zavadini, op. cit., lettera ad Antonio Vasselli,
n. 264[Napoli, 23 settembre 1837], p. 450). Quel progetto tuttavia venne poco
dopo abbandonato e Donizetti e Cammarano ripiegarono su Maria de Rudenz poiché il poeta aveva incontrato difficoltà nella
stesura del libretto. Difficoltà nondimeno superate nel 1839 quandò Cammarano
lo fornì, intitolandolo Il conte di
Chalais, a Giuseppe Lillo, che con questo melodramma riscosse un franco
successo al San Carlo nell'autunno di quell'anno (Il conte di Chalais totalizzò infatti 16 rappresentazioni e fu tra
le opere più eseguite della stagione 1839-40). Donizetti era dunque male
informato sull'esito del Conte di Chalais
(«che Lillo vestì di musica senza successo» - in: Guido Zavadini, op. cit., lettera ad Antonio Vasselli,
n. 456 [Parigi, 28 novembre 1842], p. 640). Lo stesso libretto di Cammarano,
previa una serie di modifiche apportate a Parigi quasi certamente da Giovanni
Ruffini, divenne la Maria di Rohan di
Donizetti, che da Vienna avrebbe spiccato il volo per molte altre scene.
[xxxiv] Ser
Marcantonio diventa don Pasquale nell'opera donizettiana, che viene ambientata
- e non è un'ambientazione di comodo - nella Roma ottocentesca. Don Pasquale è
infatti un personaggio romano della commedia dell'arte con un profilo
abbastanza simile a quello disegnato da Donizetti e Ruffini. (Ringrazio
vivamente l'amico Prof. Francesco Cento di Genova, il cui Dizionario donizettiano, ancora inedito, è per me fonte inesauribile a cui attingere).
[xxxv] Cfr. Alfonso Lazzari, Giovanni Ruffini, Gaetano Donizetti e il
“Don Pasquale”, Firenze 1915.
[xxxvi] Le prime rappresentazioni delle opere di
Donizetti nella stampa coeva, op.
cit., pp. 1087-1088.
[xxxvii] Ruffini
abbandonerà presto la librettistica e si trasferirà in Gran Bretagna dove si
dedicherà alla narrativa in lingua inglese.
[xxxviii] La citazione
così prosegue: «Perché di fronte ad una vicenda che aveva tutti i caratteri
della serialità non c'era proprio bisogno di “logica” drammatica, come sembrava
pretendere invece il librettista, non era necessario esplicitare tutti i nessi
scenico-teatrali, non ci si doveva dilungare in belle esposizioni liriche o
intrighi comici paradossali. Era inutile insomma cercare l'originalità in una
topica beffa teatrale, a quattro personaggi, il cui esito è scontato e
predisposto fin dal primo atto: lì tutto è riconoscibile; per chi ha
consuetudine con l'opera buffa anche settecentesca e con la librettistica
comica a cavallo dei due secoli il libretto sembra un concentrato di luoghi
comuni; ma se l'effetto è quello di un'originale Stilmischung [stile composito], se i personaggi hanno tratti
“moderni” il merito è indubbiamente della musica donizettiana.» (Daniela Goldin
Folena, Interni borghesi, in: Classic Voice Opera, “Don Pasquale” [di]
Donizetti, n. 15, Ottobre-novembre 2003, Milano 2003, pp. 6-7).
[xxxix] Le prime rappresentazioni delle opere di
Donizetti nella stampa coeva, op. cit., p. 1106.
[xl] Francesco
Attardi Anselmo, Dal “Ser Marcantonio” al
“Don Pasquale” in: Journal 7 of The
Donizetti Society, op. cit., pp. 339-341.
[xli] Il
quarantacinquenne Donizetti non è l'irriverente ventiquattrenne Rossini, che
bastona allegramente Don Bartolo nel Barbiere
di Siviglia (1816). Gaetano prova affetto e nel suo intimo almeno in parte
solidarizza con il settantenne celibatario, vittima di un inganno necessario, ancor
più che con gli altri suoi personaggi.
Eroe romantico Don Pasquale, è anzi “tragico”, anticipando così il
distante John Falstaff verdiano.
[xlii] Le prime rappresentazioni delle opere di
Donizetti nella stampa coeva, op. cit., p. 1150.
[xliii] «Si tratta di un
tipico melodramma romantico, genere [...] del quale Maria di Rohan costituisce l'ultimo e più compito esempio in tutta
la [...] produzione [donizettiana].» (Ibidem,
p. 1149).
[xliv] Guido
Zavadini, op. cit., lettera ad
Antonio Vasselli, n. 470 [Vienna, 30 gennaio 1843], p. 652.
[xlv] Guido
Zavadini, op. cit., Lettera a Teodoro
Ghezzi, n. 507 [Parigi, 5 ottobre 1843], p. 690.
[xlvi] Edoardo
Clemente Verzino, Contributo ad una
Biografia di Gaetano Donizetti con lettere e documenti inediti, Bergamo
1896, p. 125.
[xlvii] Guido Zavadini,
op. cit., lettera ad Antonio Dolci,
n. 521 [Parigi, 16 novembre 1843], p. 704.
[xlviii] Cfr.: Le prime rappresentazioni delle opere di Donizetti nella stampa coeva,
op. cit., pp. 1233-1235.
[xlix] Guido
Zavadini, op. cit., Appendice B,
lettera di Giuseppe Verdi al Marchese Caracciolo S. Teodoro, n. 40 [... 1855],
p. 953.
[l] «Seppur
diseguale, l'ultima fatica del compositore rimane uno dei vertici della sua
arte: ricco di innovazioni teatrali e musicali, calato nella differente
drammaturgia del teatro lirico francese, esso troverà degna continuazione nel Don Carlos.» (Fabrizio Dorsi, Giuseppe
Rausa, Storia dell'opera italiana,
Milano 2000, p. 397).
[li] Statua di
Gaetano Donizetti, posta nell'atrio del Teatro alla Scala. Opera dello scultore
milanese Giovanni Strazza, venne inaugurata il 10 marzo 1874. L'aveva
commissionata l'editore di musica Francesco Lucca, che la donò al Municipio
della città per collocarla nell'atrio del Teatro.
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