Venerdì 18 e Sabato 19 dicembre (credo 1982?) ore 20.00
Basilica di San Simpliciano - Milano
GEORG FRIEDRICH HANDEL
"IL MESSIA"
con
GILLIAN FISHER, soprano
DAVID JAMES, alto
JAN PARTRIDGE, tenore
MICHAEL GEORGE, basso
CORO E ORCHESTRA THE SIXTEEN
diretti da HARRY CHRISTOPHERS
Comune di Milano Settore Cultura e Spettacolo
Comitato per l'organo in S. Simpliciano
Si ringrazia la Banca Agricola Milanese
Il Messia, quasi un melodramma sacro anche senza lo splendore delle scene.
Nel 1727 muore Giorgio I, re d'Inghilterra, che era stato il più attivo sostenitore dell'opera italiana, gestita dalla « Royal Academy of Music diretta da Händel. E in poco tempo, il rapporto del pubblico inglese con l'opera italiana si modifica: una nuova corrente di simpatia e di interesse è ora rivolta al masque, uno spettacolo che certo artisticamente è più modesto, ma ha precise caratteristiche locali.
È un tipo particolare di opera con canto, recitazione, danza, impostato soprattutto su due elementi: la linearità della musica che spesso utilizza anche melodie già note (magari tratte dalle stesse opere italiane di Händel) e l'uso esclusivo della lingua inglese. Nel 1737 il teatro di Händel, il Covent Garden, chiude i battenti, e li chiude anche l'altro teatro specializzato nell'opera italiana, l'Haymarket, da sempre in concorrenza col maestro sassone.
Ma Händel, con la sua natura di indomito combattente, era già corso ai ripari: se il masque ha successo, anch'egli si prova a comporne; anzi, per la verità, ne ha già composti: si tratta di Acis and Galatea, un soggetto tratto dalle Metamorfosi di Ovidio, e di Haman and Mordecai, tratto da Racine. Rispolvera il primo, e riscrive il secondo, battezzandolo Esther: è un'opera di argomento sacro, ed è su testo inglese.
Il dramma sacro ha successo, e Händel viene incoraggiato a continuare sulla strada dell'opera in inglese anche dall'impresario dell'Haymarket, che una volta suo concorrente, ora gli scrive sollecitandolo « a liberarci dalla schiavitù italiana e dimostrare che l'inglese è abbastanza morbido per l'opera quando composto da poeti ».
Ma qualcuno ci mette il naso: è il vescovo di Londra, il quale vieta che possano apparire sulla scena personaggi delle storie bibliche in carne ed ossa. La risposta di Händel è quella di un artista grande e geniale: non un ripiegamento, ma un atto di fiducia nelle proprie forze. Se i drammi sacri che ora sente di dover scrivere non debbono avere scene e attori, diventeranno degli oratori, delle opere da concerto, pur senza mutare il loro spirito vigorosamente narrativo; semmai, aumentano ancora la loro prorompente carica drammatica arricchendosi musicalmente, quasi che lo splendore della musica debba sostituire lo splendore delle scene e il fascino dei costumi e dei movimenti.
Nel 1733 Händel produce due oratori, Deborah e Athalia; poi, ha un momento di pausa, dovuto alle sue ultime battaglie operistiche e anche alla trombosi che lo colpisce nel 1737.
Ma a partire dal 1739 si dedica quasi esclusivamente all'oratorio, componendone fino al 1752 ben quattordici, cioè una media di uno all'anno.
L'oratorio händeliano è una sintesi delle molteplici esperienze del suo autore, un uomo che era vissuto a Roma quando ancora sopravviveva in quella città il ricordo dell'arte oratoriale di Carissimi e Stradella, e che aveva assimilato la grande stagione dello strumentalismo italiano attraverso contatti personali con Corelli; un uomo che conosceva tutti i segreti della polifonia nordica, era un maestro alla tastiera dell'organo, e aveva alle spalle una grande esperienza di operista e di impresario.
Tutto questo noi lo leggiamo in trasparenza nei suoi oratori. Vediamo lo splendore formale dell'aria col suo grande prestigio vocale; vediamo la ricchezza dei cori battenti, l'articolata mobilità dell'orchestra. Leggiamo anche l'eloquio semplice e diretto del corale pro- testante e della canzone popolare inglese. In più, di assolutamente personale, Händel crea una nuova dimensione del coro, che è concepito secondo due modelli: il coro verticale, che sviluppa una intensa melodia senza alcun ricorso alla polifonia, e il coro su doppia fuga, cioè costruito su due soggetti, il che permette un discorso meno rigoroso e più vario di idee.
La novità dell'apporto corale händeliano è tanto più evidente se si pensa che esso appare già pienamente affermato fin dai primi oratori, come ad esempio nell'Israel in Egypt e nel Messiah.
Händel è un grande maestro di cerimonie: organizza per un pubblico di borghesi in strepitosa ascesa economica un grande spettacolo di suoni e canti, impostato su quei testi dell'Antico Testamento che sono una let- tura comune, una lettura privilegiata.
E muove gli strumenti e i coristi con l'impeto inesorabile della sua musica: ottiene effetti straordinari di fastosa opulenza con mezzi relativamente limitati, in virtù di una sua specifica attitudine alla pompa musicale, che ha evidenti caratteri spettacolari, anche se fa a meno di scene e di attori.
Sapiente, nel Messia, anche la scrittura solistica: e almeno due brani vanno segnalati, l'Aria (21) che segue il coro iniziale della II parte, « Egli fu dispregiato », e quella (43) di apertura della III parte, « lo so che vive il mio Redentore »: abilmente chiaroscurata la prima, e di una straordinaria, commovente semplicità la seconda.
L'architettura generale dell'opera, infine, è genialmente strutturata.
La I parte, impostata sull'annuncio della venuta del Redentore, va da un sereno inizio a una lieta, spaziosa espansività; segue la cosiddetta “Piccola Passione”, cioè la II parte, che da un clima di mestizia sfiora l'austera tragicità e si conclude nell'apoteosi irresistibile dell'« Alleluja », esempio sommo di coro « verticale », con interpolazioni contrappuntistiche. La III parte è quasi un grande Te Deum di ringraziamento, che si proietta nella nobile acclamazione polifonica dell'«Amen» conclusivo.
Eduardo Rescigno
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