Giovedì 9 novembre 2017 ore 21.00
Auditorium Città di Mortara
Mortara on Stage 2017/2018
13a stagione
Concerto a sostegno della campagna:
“La musica contro il lavoro minorile”
e in occasione della
Giornata della Filantropia
della Fondazione Comunitaria
della Provincia di Pavia Onlus
Paolo Fresu tromba, flicorno, effetti
Daniele di Bonaventura bandoneon, effetti
INGRESSO GRATUITO
PRENOTAZIONE OBBLIGATORIA
c/o Cartolibreria Sorelle Marchesi corso Josti 25 - Mortara | tel. 0384.99810
via e-mail: mortaraonstage@gmail.com
Le precedenti stagioni:
Mortara on Stage 2016/2017
Mortara on Stage 2015/2016
Mortara on Stage 2014/2015
Mortara on Stage 2013/2014
Mortara on Stage 2012/2013
Mortara on Stage 2010/2011
Mortara on Stage 2009/2010
2017_10_09 LA BISBETICA DOMATA al TEATRO LIBERO - Via Savona
TEATRO LIBERO STAGIONE DI PROSA 2017/18 |
FENICE DEI RIFIUTI presenta
Lunedì 09 Ottobre 2017_10_09
Martedì 10 Ottobre 2017_10_10
Mercoledì 11 Ottobre 2017_10_11
Giovedì 12 Ottobre 2017_10_12
Venerdì 13 Ottobre 2017_10_13
Sabato 14 Ottobre 2017_10_14
Domenica 15 Ottobre 2017_10_15
Lunedì 16 Ottobre 2017_10_16
TEATRO LIBERO - Via Savona, 10 Milano
Compagnia in residenza TLLT
LA BISBETICA DOMATA
L'anarchia dell'obbedienza
Liberamente ispirato all’opera di William Shakespeare
drammaturgia e regia Alessandro Veronese
con Alice Bignone, Caterina Campo, Lidia Castella, Giorgia Palmucci, Alessandro Prioletti, Alessandro Veronese
aiuto regia Francesca Gaiazzi e Miriam Zammataro
grafica Stefania Rotondo, video Ivan Filannino
produzione Fenice dei Rifiuti
in collaborazione con C.L.A.P.Spettacolodalvivo
“Prendi il mio corpo. Coloralo di bianco, e sarò sposa. Coloralo di azzurro, e sarò oceano. Coloralo di rosso, e sarò sangue. Coloralo di nero, e sarò lutto. Ti guardo immobile, goffo manichino. Per convincerti, anche questa volta, che io ti abbia obbedito”.
La bisbetica domata – l’anarchia dell’obbedienza è una libera rilettura del testo originale, in cui lo sguardo del regista Alessandro Veronese si sposta sul tema della dittatura in un continuo ribaltamento di piani tra verità autentica e verità raccontata. Lo spettatore è condotto per mano da alcune donne travestite da croupier all’interno di una sfavillante casa da gioco e invitato a partecipare al grande gioco, il cui premio finale è il corpo delle giovani sorelle Caterina e Bianca. L’arte del travestimento è la chiave di lettura del gioco: nulla è come sembra. I tavoli da gioco sono in realtà luccicanti prigioni, con catene legate alle caviglie degli spettatori. Le croupier perdono progressivamente ogni loro vestito, mostrando sulla carne i segni evidenti delle cicatrici. Ma nonostante questo, non smettono mai di esercitare il loro controllo mentale nei confronti dei partecipanti al gioco, in una continua e massacrante corsa al rilancio.
Date, orari, info biglietteria:
da giovedì 9 a giovedì 16 novembre 2017
domenica ore 16.00, giorni feriali e sabato ore 21.00
biglietti: interi 18 euro, ridotti 13 euro
biglietteria@teatrolibero.it
telefono: 02.8323126
www.teatrolibero.it
Pr acquisto online: https://www.teatrolibero.it/labisbeticadomata
2017_11_09 Ultimo appuntamento del Festival “Prova a sollevarti dal suolo” promosso da Opera Liquida.
Giovedì 9 novembre 2017 – ore 21
Teatro Stabile in Opera – Casa di Reclusione
Via Camporgnago 40 - Milano
Ultimo appuntamento di PROVA A SOLLEVARTI DAL SUOLO
Festival di Teatro e Teatro Carcere - 6^ Edizione
"Continuare a condividere un evento culturale con la popolazione reclusa ha il sapore di un atto di inclusione volto a modificare il sentire della comunità" (Ivana Trettel, direttore artistico Opera Liquida).
3CHEFS – Trio Comedy Clown
“L’ULTIMA CENA”
di e con Claudio Cremonesi, Stefano Locati, Alessandro Vallin
regia Rita Pelusio
suoni e rumori Luca De Marinis - luci e ombre Marco D’Amico
Se oggi l’uomo non mangia più l’uomo, è unicamente perché la cucina ha fatto dei progressi!
(Daniel Pennac)
Cucinare suppone una testa leggera, uno spirito generoso e un cuore largo.
(Paul Gauguin)
Biglietti: 15 euro – ridotti 10 euro
Dopo essere stati i clown protagonisti dello spettacolo centrale di MilanoExpo2015, prodotto dal Cirque du Soleil: “Allavita!” decidono di continuare il sodalizio nato su quel palco prestigioso, creando i “3Chefs”. Saranno nel Teatro del Carcere di Opera giovedì 9 novembre con L’ULTIMA CENA, regia Rita Pelusio, per l’ultimo appuntamento del Festival “Prova a sollevarti dal suolo” promosso da Opera Liquida.
https://www.youtube.com/watch?v=WJrFvmTEb14
Lo Chef, questa icona dei giorni nostri, una presenza costante nella vita delle persone, un nuovo eroe che si muove tra padelle e fornelli in una battaglia perenne alla ricerca del gusto sublime.
A partire da questa realtà anche i nostri “3Chefs” si lanciano nell’impresa per creare ricette di divertimento uniche, capaci di mandare in estasi il palato, di far sentire il karma del gusto, di far cantare di gioia le papille gustative. Al di là di stelle e cucchiai d’argento il loro scopo è arrivare all’essenza del sapore, è trovare l’ingrediente fondamentale per deliziare i palati più raffinati.
I “3Chefs” costruiscono la loro cucina dell’assurdo, dove i sensi vengono solleticati "a la carte" fra saporiti virtuosismi e gustose acrobazie per una "cena senza cibo" che non lascerà di certo a digiuno il vostro spirito: quale miglior nutrimento infatti se non la comicità, linfa per il corpo e per la mente, prelibato cibo dell’anima?
Un susseguirsi di numeri comici legati al mondo della cucina e dell’arte culinaria. Jonglerie con mestoli, vassoi acrobatici, musica dal vivo con pentole e cucchiai, tutto condito con un teatro fisico all'ennesima potenza, in un rapporto diretto con il pubblico... da leccarsi i baffi!
Lo spettacolo è per pubblico misto di detenuti e civili. Possono entrare anche i minori, se accompagnati.
Infoline operaliquida@gmail.com - tel. 388.8731973 - www.operaliquida.org
PER GLI SPETTACOLI IN CARCERE è obbligatorio prenotare i biglietti sul sito www.operaliquida.org almeno tre giorni prima della data dello spettacolo, compilando il form con dati anagrafici e inviandolo alla mail prenotazionistabileinopera@gmail.com
Preghiamo gli spettatori di presentarsi un’ora prima all’ingresso principale del carcere per la verifica dell’autorizzazione all’entrata, la consegna del documento di identità e il ritiro del pass per l’ingresso al teatro del carcere. Il biglietto verrà acquistato direttamente a teatro.
Ricordiamo che all’ingresso verrà ritirato un documento di identità ed è obbligatorio lasciare in macchina cellulari e borse prima di entrare nell’Istituto. E’ consentito portarsi esclusivamente il documento di identità e i contanti per l’acquisto del biglietto. Il parcheggio dei propri automezzi potrà avvenire nelle aree interne preposte.
Teatro Stabile in Opera – Casa di Reclusione
Via Camporgnago 40 - Milano
Ultimo appuntamento di PROVA A SOLLEVARTI DAL SUOLO
Festival di Teatro e Teatro Carcere - 6^ Edizione
"Continuare a condividere un evento culturale con la popolazione reclusa ha il sapore di un atto di inclusione volto a modificare il sentire della comunità" (Ivana Trettel, direttore artistico Opera Liquida).
3CHEFS – Trio Comedy Clown
“L’ULTIMA CENA”
di e con Claudio Cremonesi, Stefano Locati, Alessandro Vallin
regia Rita Pelusio
suoni e rumori Luca De Marinis - luci e ombre Marco D’Amico
Se oggi l’uomo non mangia più l’uomo, è unicamente perché la cucina ha fatto dei progressi!
(Daniel Pennac)
Cucinare suppone una testa leggera, uno spirito generoso e un cuore largo.
(Paul Gauguin)
Biglietti: 15 euro – ridotti 10 euro
Dopo essere stati i clown protagonisti dello spettacolo centrale di MilanoExpo2015, prodotto dal Cirque du Soleil: “Allavita!” decidono di continuare il sodalizio nato su quel palco prestigioso, creando i “3Chefs”. Saranno nel Teatro del Carcere di Opera giovedì 9 novembre con L’ULTIMA CENA, regia Rita Pelusio, per l’ultimo appuntamento del Festival “Prova a sollevarti dal suolo” promosso da Opera Liquida.
https://www.youtube.com/watch?v=WJrFvmTEb14
Lo Chef, questa icona dei giorni nostri, una presenza costante nella vita delle persone, un nuovo eroe che si muove tra padelle e fornelli in una battaglia perenne alla ricerca del gusto sublime.
A partire da questa realtà anche i nostri “3Chefs” si lanciano nell’impresa per creare ricette di divertimento uniche, capaci di mandare in estasi il palato, di far sentire il karma del gusto, di far cantare di gioia le papille gustative. Al di là di stelle e cucchiai d’argento il loro scopo è arrivare all’essenza del sapore, è trovare l’ingrediente fondamentale per deliziare i palati più raffinati.
I “3Chefs” costruiscono la loro cucina dell’assurdo, dove i sensi vengono solleticati "a la carte" fra saporiti virtuosismi e gustose acrobazie per una "cena senza cibo" che non lascerà di certo a digiuno il vostro spirito: quale miglior nutrimento infatti se non la comicità, linfa per il corpo e per la mente, prelibato cibo dell’anima?
Un susseguirsi di numeri comici legati al mondo della cucina e dell’arte culinaria. Jonglerie con mestoli, vassoi acrobatici, musica dal vivo con pentole e cucchiai, tutto condito con un teatro fisico all'ennesima potenza, in un rapporto diretto con il pubblico... da leccarsi i baffi!
Lo spettacolo è per pubblico misto di detenuti e civili. Possono entrare anche i minori, se accompagnati.
Infoline operaliquida@gmail.com - tel. 388.8731973 - www.operaliquida.org
PER GLI SPETTACOLI IN CARCERE è obbligatorio prenotare i biglietti sul sito www.operaliquida.org almeno tre giorni prima della data dello spettacolo, compilando il form con dati anagrafici e inviandolo alla mail prenotazionistabileinopera@gmail.com
Preghiamo gli spettatori di presentarsi un’ora prima all’ingresso principale del carcere per la verifica dell’autorizzazione all’entrata, la consegna del documento di identità e il ritiro del pass per l’ingresso al teatro del carcere. Il biglietto verrà acquistato direttamente a teatro.
Ricordiamo che all’ingresso verrà ritirato un documento di identità ed è obbligatorio lasciare in macchina cellulari e borse prima di entrare nell’Istituto. E’ consentito portarsi esclusivamente il documento di identità e i contanti per l’acquisto del biglietto. Il parcheggio dei propri automezzi potrà avvenire nelle aree interne preposte.
2017_11_08 In scena al Teatro Gerolamo UNA VALIGIA PIU’ LIGERA con Piero Colaprico, Virginia Zini, Valerio Bongiorno
Giovedì 09 Novembre 2017_11_09 ore 20
Teatro Gerolamo, piazza Beccaria 8 Milano
PIERO COLAPRICO
UNA VALIGIA PIU’ LIGERA
con Piero Colaprico, Virginia Zini, Valerio Bongiorno e con Guido Baldoni (fisarmonica), Raffaele Kohler (tromba), Giancarlo Peroncini detto el Pelè (tolofono), Nadir (chitarra) ... e per me Milano è stato - o è stata? Milano è maschio o è femmina? - come un felicissimo Natale.
Chi ama Milano e la sua storia, le sue canzoni, le sue leggende, potrà apprezzare “Una valigia più ligera” al Teatro Gerolamo con la compagnia di Piero Colaprico: “compagnia” con la “c” minuscola, nel senso che con Colaprico, giornalista e scrittore, nel corso degli anni hanno recitato in formazione variabile personaggi come Luciano Lutring, il solista del mitra, o Didi Martinaz, l’ultima cantante della ligera.
La memoria che resta, la Milano del Dopoguerra, la ligera romantica epopea di una città che stava crescendo, i suoi famosi ritrovi, l’immigrazione, il lavoro, l’integrazione. La malavita di Milano con i suoi intrecci, poteri forti, morti e sparatorie.
Questa volta, in collaborazione con Atir Teatro Ringhiera, ci sono gli attori Valerio Bongiorno e Virginia Zini, i musicisti Guido Baldoni alla fisarmonica e Raffaele Kohler alla tromba, El Pelè (Giancarlo Peroncini) al tollofono, con Nadir alla chitarra. Altre sorprese sono previste per chi vorrà abbandonarsi alle intuizioni del teatro-osteria in queste due serate irripetibili
ORARI: feriali ore 20
BIGLIETTI: da 6 a 34 euro
PRENOTAZIONI
Tel. 02.36590120 - 02.45388221 (negli orari e giorni di apertura) - vendita online www.vivaticket.it - Mail: biglietteria@teatrogerolamo.it info@teatrogerolamo.it
TEATRO GEROLAMO
Piazza Cesare Beccaria, 8 – 20122 Milano - tel 02.36590120 – fax 02.36590130
www.teatrogerolamo.it
1987 Rodolfo Celletti e la voce di baritono, lo stile è precluso a chi manca di tecnica e l'interpretazione a chi manca di stile.
Dall'archivio di CONCERTODAUTUNNO, rendiamo disponibile un saggio illuminante sulla voce di "baritono" che fu pubblicato alla fine degli anni '80 e che purtroppo mi pare non sia disponibile in rete. Da questo saggio avevo a suo tempo raccolto l'indicazione che cerco di trasmettere nelle mie presentazioni o guide all'ascolto e conferenze sulla lirica sulla vocalità baritonale che è assolutamente la mia preferita.
La pubblicazione di questo articolo è fatta a favore di quanti non possono fruirne attraverso le pubblicazioni ufficiali e non ha fini di lucro. Non riesco, dalle fotocopie , ad individuare la testata per la quale fu a quel tempo scritto e pubblicato. Qualora vengano violati i diritti di qualcuno basta avvisare e sarà eliminato.
Dolente, sdegnato solenne, cantò
Il baritono verdiano e i suoi molteplici ruoli.
di Rodolfo Celletti
La richiesta di parlare del baritono verdiano mi fu rivolta dall'Ing. Ronchi di Salerno in una lettera che, inorridisco nel constatarlo, porta la data del 15 novembre 1978. Da allora l'ing. Ronchi è diventato per me una specie di «amico di penna», come si dice fra coloro che di tanto in tanto si scrivono senza conoscersi personalmente. È uno dei lettori, fra l'altro, che di quando in quando riforniscono la cartella «Ire, sdegni e sfoghi» e gli debbo questo tributo.
Ma sono poi intervenuti altri lettori. Per esempio. Paolo Cavalli di Parma che, per inciso, vorrebbe confutare (ma parzialmente) proprio un giudizio limitativo che a suo tempo l'ing. Ronchi diede di Renato Bruson e che io riportai. Ne riparleremo. Ancor più recentemente, mi ha sollecitato a tracciare la storia del baritono verdiano anche Fabio Poggi, di Asti, con una lettera da «Ire, sdegni e sfoghi» («more solito») che si riferisce, in particolare, a certe esecuzioni torinesi. Ed eccomi qui. Ma l'argomento è quello che è: lungo, oltre che complesso quindi questa specie di saggio lo suddividerò in due parti: dal Nabucco alla Luisa Miller e dalla «Trilogia» al Falstaff.
DAL NABUCCO A LUISA MILLER
Non è possibile dare una definizione univoca del ruolo e della posizione del baritono nell'operismo verdiano. Questo vale già per i primi lavori. Si sa che, nel melodramma romantico, la funzione prevalente del baritono è quella di antagonista del tenore, per ragioni che vanno dalla rivalità in amore a contrasti politici e a faide familiari. Appunto come antagonista, il baritono ordisce intrighi e trame delittuose che, con il tenore, colpiscono quasi sempre anche il soprano. Per ciò stesso, il baritono appare come la longa manus del male nel conflitto romantico tra la malvagità e i personaggi che simboleggiano il bene. Questa però è una definizione schematica e largamente incompleta. Già in Bellini e in Donizetti, infatti, il baritono può avere altri lineamenti e configurare personaggi generosi e cavaliereschi, quando addirittura non incarna figure eroiche o di grande levatura morale e artistica, come Belisario e Torquato Tasso in Donizetti. Sempre in Donizetti, il baritono può fungere da amoroso: o tanto sventurato da impazzirne (come Cardenio del Furioso) o fortunato, come Don Pedro della Maria Padilla, in cui, tra l'altro, il tenore è relegato in una parte di padre.
Questo quadro ampio e vario di attribuzioni, diviene ancor più complesso con Verdi, il quale, fra l'altro, finì per attribuire al baritono anche caratteristiche di timbro, di colore, d'estensione e di tessitura che ne fecero un registro vocale per vari aspetti nuovo. Su questa strada, è bene precisarlo. Verdi si mantenne piuttosto distante da Bellini e dal primo Donizetti. mentre con l'ultimo Donizetti il rapporto fu non soltanto più stretto, ma duplice. Donizetti precorse Verdi sia nella complessità psicologico-vocale di certe parti baritonali (appunto Cardenio, Belisario, Torquato Tasso), sia in certe caratteristiche di scrittura, ma ad un certo punto il giovane Verdi gli si affiancò e, sia pure per un breve tratto, lo precedette, suggerendogli, tramite l'impiego che fece di Giorgio Ronconi nel Nabucco, qualche connotato del Duca di Chevreuse della Maria di Rohan.
Ma, sempre a proposito di Donizetti, non dobbiamo dimenticare che fu lui a codificare, nella Linda di Chamounix. l'attribuzione al baritono di quelle parti di padre «nobile» (anche se di umile condizione) che Verdi fece poi proprie nella Giovanna d'Arco, come primo tentativo, quindi nella Luisa Miller e nel Rigoletto.
A questo punto, per rendere più accessibili certe vicende della voce baritonale, ricorderò che nel melodramma italiano serio del Sei/Settecento questo registro non esisteva. O meglio, esisteva sotto altre denominazioni.
Le voci maschili del nostro operismo furono, fino a Rossini, sol tanto due: tenore e basso.
Ma il tenore era baritonaleggiante come timbro e colore ed esplicava le funzioni del baritono anche come ruoli. Era infatti antagonista - spesso con i tratti del personaggio «vilain» protervo e brutale - oppure caratterista: confidente, amico, padre nobile. A loro volta i bassi potevano avere qualche carattere baritonale e fungere anch'essi da antagonisti o da caratteristi (con l'aggiunta, spesso, di parti da re o da sacerdote).
Quando però il tenore baritonale, causa la progressiva rarefazione dei castrati, cominciò a sostenere, in alternativa con il contralto «in travesti», parti di amoroso, si creò la necessità di sostituirlo nei ruoli di antagonista e di caratterista con una voce che se ne differenziasse timbricamente.
Comparve così il basso cantante, dotato d'una voce capace di sostenere tessiture più acute di quelle di solito scritte per il basso autentico.
Il basso cantante fu il più immediato precursore del baritono e forse qualcosa di più, se pensiamo che tutte le parti scritte da Bellini per basso cantante (e molte di quelle scritte da Donizetti) sono oggi cantate da baritoni. Donizetti scrisse su tessiture più acute di Bellini per le opere in cui potè disporre di Giorgio Ronconi (Furioso, Torquato Tasso e soprattutto. Maria di Rohan).
Ronconi, infatti, pur essendo anch'egli ufficialmente definito un basso cantante, vantava in realtà un registro acuto esteso e quasi tenoreggiante.
Fu il primo autentico baritono della storia dell'opera italiana e il suo tipo vocale finì per fare testo giacchè, nel frattempo, era nato e s'era imposto il tenore romantico chiaro e acuto varato da Bellini in Pirata, Sonnambula, Puritani. In definitiva, il fulcro della questione fu quello di tenere distinto, tramite il timbro e il colore, l'amoroso dall'antagonista. Quando il romanticismo introdusse un tenore chiaro che per il timbro stilizzato e il colore della voce poteva in qualche modo ricordare i castrati - e precipuamente i contraltisti - per differenziare l'antagonista bastò il timbro e il colore di Ronconi, che in sostanza altri non era che una reincarnazione del vecchio tenore baritonale del Sei/Settecento. Analogamente, quando il verismo concepì, tra la fine dell'Ottocento e i primi del nostro secolo, il tenore «centrale» alla Caruso o alla Zenatello, o i compositori introdussero tessiture baritonali più basse per differenziare l'antagonista dall'amoroso (si pensi a Rance della Fanciulla del West o allo stesso Scarpia) ovvero i baritoni provvidero motu proprio a pompane e a scurire i centri, con i noti risultati: voce forzata, indurita e accorciata non tanto in rapporto alle parti da eseguire nel repertorio verista, quanto a quelle verdiane.
Verdi partì, già con il Nabucco (scritto per Ronconi) da strutture prettamente baritonali, tramutando in regola fissa ciò che per Donizetti era stato un comportamento sporadico. Alcuni personaggi, è vero, come Giacomo della Giovanna d'Arco, Francesco Moor dei Masnadieri, Rolando della Battaglia di Legnano, Stankar dello Stiffelio hanno tessiture lievemente meno acute di quelle del baritono verdiano più tipico. Lo si deve al fatto che Filippo Coletti (il primo Francesco Moor) e Filippo Colini (il primo Giacomo, il primo Rolando. il primo Stankar) provenivano dalle file dei bassi cantanti donizettiani e ne conservavano qualche tratto. Ma è nel Nabucco, nell'Ernani, nei Due Foscari, nel Corsaro che Verdi da al baritono i tratti definitivi. E per inciso, il primo Doge dei Foscari e il primo Seid del Corsaro tu Achille De Bassini. tenoreggiante ancor più di Ronconi, tanto che aveva iniziato la carriera come tenore.
A questo punto, possiamo cominciare ad avere un'idea del capovolgimento operato da Verdi nell'impiego dei registri vocali. Assurge al rango di più importante voce maschile proprio quella che, nel melodramma belcantistico, godeva di minor prestigio. Il gusto belcantistico .aveva avversato il «baritenore». perché timbro poco stilizzato, comune, volgare, realistico. Ma proprio perché realistico, il romanticismo, e Verdi in modo precipuo, lo predilige. Da questa predilezione deriva la complessità di molte parti baritonali del periodo giovanile verdiano.
Consideriamo Nabucco, Don Carlo nell'Ernani, il Doge dei Foscari, Ezio dell’Attila, Macbeth.
Sono cinque figure che hanno in primo luogo attributi regali o quasi regali, ai quali associano, in varia misura, quelli del guerriero e del conquistatore. Dunque, il primo Verdi è portato ad attribuire alla voce baritonale la capacità di caratterizzare personaggi epicheggianti e di alta levatura storica. All'interno di questa tendenza, il meccanismo dell'opera verdiana può anche isolare Nabucco e Macbeth e ridurli ad esseri annichiliti dai rimorsi e dalla follia. Ciò implica però sconvolgimenti interiori, drammi spinti alle estreme conseguenze. Di questi drammi - o tragedie - il baritono è, per il Verdi del primo periodo, l'unica voce che possa vivere e rendere le passioni. Il timbro «non stilizzato» è proprio ciò che agli occhi di Verdi la rende la più umana e credibile nella violenza come nel dolore o nel terrore. Verdi la ritiene anche capace d'una duttilità timbrica e psicologica che non individua né nella voce «stilizzata» e alquanto artificiosa del tenore chiaro, né nella voce tenebrosa e un po' monocorde del basso. E così nel tempestoso animo di Nabucco insinuerà le toccanti melodie dell'affetto paterno; e ancora l'affetto paterno addolcirà gli sdegni del vecchio Foscari, ingiustamente umiliate. Vedremo inoltre il baritono dell’Ernani tramutarsi, da una sorta di epigono di Don Giovanni, nel generoso, nobile e lungimirante Carlo V del III atto dell'opera.
All'Ezio dell’Attila queste trasmutazioni sono invece negate. Ezio non è un carattere scavato e variegato, ma un personaggio-simbolo, un'idea politica, uno strumento di propaganda. Ma è anche banditore, in nome di Verdi, di grandi sentenze patriottiche e unitarie; ed ecco appunto,un caso di identificazione tra voce di Verdi e voce del baritono. A Ezio potrebbe riallacciarsi, in nome della passione risorgimentale verdiana, Rolando della Battaglia di Legnano, ma questa figura è scalfita dalla disavventura, tipicamente baritonale, del marito tradito, sia pure soltanto idealmente, dalla moglie e dal migliore amico.
Giacomo della Giovanna d'Arco e Stankar dello Stiffelio incarnano personaggi, abbastanza consueti nel melodramma romantico, di vecchi padri gelosi dell'onore delle figlie. Queste due figure, anche se piuttosto stereotipe musicalmente e scenicamente, denunciano la tendenza verdiana ad avvalersi del baritono, a preferenza del basso, per le parti di padre. Quanto ai personaggi di baritono «vilain» e cioè di antagonista feroce e sleale, il primo Verdi ne accoglie soltanto tre: Guzman dell’Alzira, Seid del Corsaro e Francesco Moor dei Masnadieri, figura addirittura mostruosa, ma che, fra le tre, è la più approfondita psicologicamente, grazie alla scena d'incubo del III atto.
Ho già accennato alla duttilità che caratterizza, in Verdi, il baritono.
È una qualità legata al tipo delle parti e alla scrittura vocale. La voce del baritono è di solito classificata come grave e questo è anche il suo significato in greco, lingua dalla quale il termine deriva. Ma in Verdi è più proprio considerarla come una voce intermedia e, semmai, più gravitante verso il tenore che verso il basso.
Che Verdi avesse bisogno d'un tipo vocale diverso dal basso cantante di Bellini e di molte opere di Donizetti, è abbastanza ovvio. Ben più ampia era infatti la gamma di sentimenti che egli voleva affidare al baritono.
In primo luogo Verdi aveva di questa voce, come abbiamo già visto, una concezione epicheggiante. Era quindi inevitabile che per personaggi come Nabucco, il Doge Foscari, Ezio, Carlo V, egli tendesse a fraseggi concitati e veementi situati tra il re e il sol bemolle o sol naturale acuti.
Queste note sono infatti, nel registro baritonale, particolarmente vibranti e squillanti e servono anche a tratteggiare la temibilità (o in qualche caso soltanto la tracotanza: Seid del Corsaro) di certi personaggi.
Consideriamo l'Andantino «S'apprestan gli istanti d'un'ira» fatale del Finale II del Nabucco.
Il baritono dovrebbe iniziarlo - indica Verdi - «sottovoce e cupo» (specialità di Giorgio Ronconi, per inciso). Ma improvvisamente la voce scatta verso la zona acuta alla frase «Apprestan un giorno di lutto e squallor». È il momento in cui Nabucco s'attribuisce poteri divini e lo squillo del settore alto dovrebbe avere, idealmente, qualcosa di folgorante. Analogamente nell'Attila, allorché durante il duetto con il protagonista («La destra porgimi») la voce di Ezio sale con un arpeggio al fa acuto e poi resta in zona alta emettendo note di lunghissima durata (è la famosa frase: «Avrai tu l'universo, resti l'Italia a me»), è pacifico che l'effetto voluto da Verdi si fonda sullo squillo e sulla resistenza polmonare dell'esecutore.
Sarebbe tuttavia errato pensare che un registro acuto pieno e squillante costituisca il solo requisito fondamentale del baritono verdiano. È vero, per cantare le parti baritonali di Verdi occorre un settore alto particolarmente esteso, intenso e risonante e non per nulla i francesi hanno adottato il termine di «baryton Verdi» per designare un baritono acuto. Ma tutto considerato, lo squillo del settore alto, vincolato com'è alla fonazione detta «in maschera», ad un passaggio di registro eseguito in modo ortodosso e ad un'emissione piena, vibrante, ma esente da forzature, è un problema in buona parte tecnico.
Collateralmente, si presenta il problema stilistico e interpretativo concernente i concitati e veementi fraseggi in zona alta e, in senso più generale, le parti regali ed epicheggianti.
Con molto semplicismo si è creduto, in passato, di poter affermare che, per simili fraseggi e simili parti, occorrevano un baritono e uno stile «drammatici». Viceversa lo stile più appropriato è il «grandioso». Questo termine è suggerito dallo stesso Verdi. Quando, nel già ricordato duetto dell'Attila, Ezio attacca l'andante «Tardo per gli anni e tremulo», Verdi indica: «grandioso».
La stessa indicazione ricorre per l'Andante del II atto, «Dagli immortali vertici».
È una melodia solenne, paludata, che poi diviene tesa, veemente, appassionata, ma senza nulla perdere in maestosità, alla frase, oltre a tutto enfatizzata da un raddoppio orchestrale, «Roma nel vil cadavere chi ravvisare or può».
Ecco, questo è uno dei più eloquenti esempi dello stile grandioso richiesto da Verdi al baritono sin dalle opere giovanili.
Questo stile è per lo più riservato agli Andanti e l'indicazione di «grandioso» compare anche a proposito dell'Andante Sostenuto «Franco son io, ma in core» di Giacomo, nella Giovanna d'Arco. Qui però Verdi indica: «Grandioso declamato» e in effetti stiamo parlando d'uno stile a sfondo oratorio. Generalmente Verdi adotta, per il canto «grandioso», una scrittura sillabica o semisillabica, ma proprio nell'aria di Giacomo che ho ricordato ricorrono diversi melismi, come generalmente accadeva nelle parti che avevano come primo interprete il baritono Filippo Colini. Altri esempi di stile «grandioso» sono l'Andante «Questa è dunque l'iniqua mercede» del Doge Foscari, l'Andante con moto «Ah, de' verd' anni miei» di Don Carlo (Ernani) e l'Andante Sostenuto «Pietà, rispetto, amore» eseguito da Macbeth nell'ultimo atto.
L’Andante di Don Carlo (Ernani) è una delle pagine che meglio rivelano la natura del baritono verdiano. Contiene infatti i due stili fondamentali che il primo Verdi - ma anche il Verdi successivo - richiede a questo registro vocale: il «grandioso», appunto, e il «patetico».
Prima però di esaminarlo, vorrei accennare a un altro Andante dell'Emani e cioè al «Lo vedremo, veglio audace». Qui l'esplosione di sdegno trova, nelle parole come nell'andamento melodico, una configurazione assolutamente iperbolica. La voce accenta con forza e su tessiture molto acute frasi come «Essa rugge sul tuo capo / pensa pria che tutta scenda / più feroce, più tremenda / d'una folgore su te». Ma il fraseggio, articolato su lunghi e incisivi periodi, resta largo e sostenuto e proprio questa ampiezza, unita a figurazioni verbali poco meno che apocalittiche (la vendetta del sovrano che «rugge» e che s'appresta a sfogarsi «più tremenda» d'una folgore) deve legare l'espressione del personaggio a qualcosa che non sia pura e semplice collera, ma senso della regalità offesa.
In altri termini: esprimere in questo momento pura e semplice ira, è fare del verismo o, tutt'al più, del realismo drammatico, al modo, appunto, dei baritoni veristi che cantavano Verdi negli anni Cinquanta e dei loro attuali epigoni.
Rendere invece il senso della regalità offesa è spingersi più in là e cogliere quell'essenza mitica della figura di Carlo V che, sia pure ampollosamente, è adombrata dalle parole del librettista.
E per questo occorre lo stile «grandioso».
Questo stile ricorre anche nell'Andante «O de' verd' anni miei» e precisamente nella seconda frase, ripetuta tre volte: «Vincitor de' secoli, il nome mio farò». Qui è l'epicheggiante aspirazione all'immortalità che deve suggerire, al baritono, una solennità perentoria, fatta di note ampie e squillanti. Il che sottolinea anche uno dei motivi delle tessiture acute verdiane.
Ma se le note ampie e squillanti non trovano, nell'interprete, anche una scansione e un'accentazione larghe, maestose, oratorie, l'effetto non sarà raggiunto. Né sarà raggiunto se il suono mancherà di rotondità, di pastosità e denuncerà invece forzature, fibrosità, opacità. E qui torniamo, come il cane che si morde la coda, al problema tecnico.
Lo stile è precluso a chi manca di tecnica e l'interpretazione a chi manca di stile.
Tecnica, stile e interpretazione sono tre elementi indissolubilmente collegati fra loro. L'uno condiziona l'altro. Ma l'«Ah, de' verd' anni miei» ci mostra anche l'altra tipica corda del baritono di Verdi e cioè la pateticità. La prima parte dell'aria è un lamento sulla giovinezza perduta e il carattere nostalgico e sognante della melodia è accentuato da ricorrenti fiorettature.
Non è difficile scorgere, alla base di questo andamento elegiaco-estatico, un richiamo alle nenie che, nelle loro prime opere di successo, Bellini e Donizetti scrissero per le effusioni e per i lamenti amorosi dei personaggi tenorili. Quasi mai Bellini e Donizetti scrissero per i loro bassi cantanti baritonaleggianti - da essi considerati come voci gravi - melodie così flessibili, nostalgiche e, torno a ripeterlo, così tenorili. Ed ecco un'altra spiegazione delle tessiture acute adottate da Verdi per il baritono. Verdi intende allargare in tutte le direzioni le frontiere di questo registro vocale, che vuole solenne, grandioso, epicheggiante, ma anche aperto alle timbrature e ai colori affettuosi, soavi, malinconici. E così spinge il baritono a parziali limitazioni dei timbri e dei colori del tenore attraverso melodie che nel disegno e nelle tessiture echeggiano appunto le malinconiche nenie protoromantiche. Di questo passo giungeremo a «Il balen del suo sorriso» del Trovatore e all'«O dolcezze perdute, o memorie» del Ballo in maschera, che è forse lo spunto più tenorile affidato da Verdi a un baritono.
Da qui consentitemi una divagazione.
Se qualche lettore mi chiederà di tracciare un profilo storico del tenore verdiano, lo farò. Ma allora vedremo che il Verdi giovane è a disagio, con questa voce, stenta a ricavarne un vero e proprio personaggio (Ernani è un'eccezione, ma soltanto parziale), le affida figure stereotipe e melodie in genere scarsamente caratterizzate, che ricalcano stancamente formule donizettiane e belliniane o che si sfogano in un cabalettismo quarantottesco, latore di messaggi politici e patriottici abbastanza spesso anch'essi di maniera. Ma la grande elegia, quella che aveva portato Bellini (e sulla sua scia Donizetti) a valorizzare e a imporre il tenore chiaro protoromantico, nel tenorismo del primo Verdi manca. E la ragione, io credo, è proprio nel fatto che Verdi sottrae al tenore delle opere giovanili proprio la sua linfa più caratteristica, la melodia elegiaca ed estatica, per girarla al baritono. Non solo, ma operando questo trasferimento, Verdi si servirà della «cantilena» per esprimere non soltanto la solitudine di Don Carlo nel momento in cui diviene imperatore o quella di Macbeth allorché si scatena la nemesi storica, ma l'affetto paterno nelle sue espansioni e nelle sue sofferenze. Ed ecco allora dalle labbra di Nabucco levarsi l'Adagio «Ah! perché, perché sul ciglio» o la supplica «Deh perdona a un padre che delira» (duetto con Abigaille, atto III). O anche la preghiera «Dio di Giuda», anch'essa tipica dello stile patetico. Tutte queste melodie hanno, oltre che le tessiture tendenzialmente acute, i caratteri classici della nenia dolente, trepidante e nostalgica: andamento molto legato, motivo che si snoda per moto contiguo o per brevi intervalli, fiorettature o, quanto meno, scrittura non sillabica, ma semisillabica o neumatica. La malinconia e la tenerezza della nenia caratterizzano il fiorettato Andante in 6/8 «O vecchio cor che batti» del Doge Foscari, la prima parte della romanza «Speme al vecchio era una figlia» di Giacomo (Giovanna d'Arco) e, sempre nella Giovanna d'Arco, l'«Ella innocente e pura», primo esempio degli affettuosi, tenerissimi duetti tra il baritono e il soprano di Verdi, rispettivamente in veste di padre e di figlia.
Ed eccoci alla Luisa Miller, opera di frontiera.
Per diversi aspetti appartiene al primo Verdi, per altri al Verdi della «Trilogia». Verdi, nella Luisa Miller, prende finalmente confidenza con il tenore, alla cui voce per la prima volta affida un vero personaggio; ed anche una vera, autentica melodia elegiaca e lunare insieme: «Quando le sere al placido». Il personaggio di Luisa, a sua volta, porta Verdi a certi criteri introspettivi che anticipano Violetta. E Miller, infine, è uno dei padri più riusciti. I personaggi sono solenni e maestosi, in Verdi, o per rango o per altezza morale. Miller lo è per altezza morale. L'Andante «Sacra è la scelta d'un consorte» porta puntualmente, all'inizio, l'indicazione: «Grandioso»; e ci presenta il caso del principio etico verdiano affidato alla voce baritonale: il diritto della donna di non subire costrizioni. Cantava Miller, alla prima rappresentazione (1849), Achille De Bassini, il più verdiano dei baritoni di quegli anni come fuoco ed energia, ma anchen- l'ho già detto - il più tenoreggiante. La conseguenza è che in quest'aria Miller fraseggia sillabando - «sillabando», non vocalizzando - su una tessitura per l'epoca acutissima. È un continuo battere, in certi momenti, tra il re e il fa acuti, con ascese anche al sol bemolle. Siamo però alle solite. La voce deve avere squillo, ma se l'esecutore forza o comunque mostra fatica, manomette il «legato» e scalfisce il senso di ciò che canta. La frase «In terra un padre somiglia Iddio / per la bontade, non pel rigor» richiede un accento perentorio, ma anche calda umanità. E l'umanità non la si esprime né con l'urlo, né con il muggito. La statura morale che Verdi vuole attribuire a Miller riappare nel Finale I, all'Andantino: «Fra mortali ancora oppressa»; e qui di nuovo, alla frase «A quel Dio ti prostra innante». Verdi indica: «grandioso». Ma al III atto, al «grandioso» sottentra il «patetico». L'Allegro assai Moderato «Andrem raminghi e poveri» è una di quelle melodie da ballata popolare la cui estrema semplicità sgorga dallo spirito delle società contadina. E’ il sapore di cantilena va reso da una emissione lieve, dolce, trasognata. In definitiva, Miller è una delle figure baritonali più tipiche di Verdi.
È il Giacomo della Giovanna d'Arco trasfigurato, elevato, musicalmente e scenicamente, a una solennità quasi patriarcale e, poi, di colpo, prostrato dalla sventura. Prendete un simile personaggio, cancellate il suo passato di soldato, fatelo vivere, anziché in un ambiente contadino, in una corte licenziosa, intrigante, sordida. Avrete Rigoletto.
DALLA TRILOGIA AL FALSTAFF
Rigoletto è uno dei personaggi più mitizzati di Verdi. Corrisponde, per un baritono, a ciò che è Violetta per i soprani o Manrico per i tenori. Dipende dalla complessità del personaggio. Complessità psicologica e conseguentemente, complessità vocale. È una figura contraddittoria. un concentrato di odio e di amore, di nobiltà e di abiezione. È il baritono che trama, secondo i doveri del deus ex machina del melodramma romantico, le insidie in cui dovrà cadere il tenore; ma queste insidie, improvvisamente e contro ogni regola, si ritorcono a suo danno. Ciò proietta su di lui una luce tutta particolare e ne fa uno dei personaggi più dolorosi di Verdi.
Inoltre è un essere dalla doppia vita, cupo, misterioso: è il «brutto tenebroso», contrapposto ai bei tenebrosi di stampo tenorile, come Gualtiero il pirata, Edgardo, Ernani. Visto come tipo vocale, è uno dei personaggi verdiani che più s'è trovato esposto, dall'inizio del nostro secolo in poi, alla veristizzazione. Soltanto Otello, Jago, Amonasro. Azucena e Amneris sono stati sconciati quanto Rigoletto. La collezione di gigionate che si può consegnare al museo degli orrori, dopo che si sono ascoltate le numerosissime edizioni in disco dell'opera, è talmente copiosa, ma anche talmente nota, da dissuadermi dal compilarne un inventario.
Direi però, a parziale giustificazione sia degli interpreti, sia dei critici e dei pubblici che li avallarono, che era molto facile, dieci anni fa come trenta o cinquanta o settanta, cadere nell'equivoco. Anzitutto, Rigoletto è deforme. Portate in scena una qualsivoglia deformità, anche in epoche non precipuamente tendenti al verismo. e vedrete l'interprete accentuarla e dilatarla. Perché Rigoletto, oltre che gobbo, debba essere anche sciancato – come spesso avviene di constatare in teatro – non l’ho mai capito. In secondo luogo Rigoletto è un buffone.
E anche questo è un tratto che agli interpreti piace dilatare; e spesso anche ai registi.
Ma la spiegazione più calzante, forse nelle tentazioni veriste, è nella conformazione del personaggio.
Sin dall'inizio Rigoletto inbocca la strada della declamazione e la batte a lungo: nella scena della festa, nel colloquio con Sparafucile, nel monologo «Pari siamo». Intendiamoci: poche altre volte un operista prestò a un personaggio una declamazione così duttile, varia e ariosa come Verdi a Rigoletto nel duetto con Sparafucile o in «Pari siamo».
Ma quello che sfugge normalmente ai baritoni, e anche ai direttori, è che la scena Rigoletto-Sparafucile è allucinante, soprattutto per i colori orchestrali, e che l'allucinazione, nel canto, salvo contrarie indicazioni dell'autore, la si esprime cantando con un filo di voce: timbrato, s'intende, non opaco o falsettato. E con un fil di voce, tranne la chiusa e pochi altri punti, dovrebbe essere cantato il monologo. A parte tutto, proprio perché è un monologo.
In definitiva. Rigoletto è un personaggio di petulante, ma non sguaiata estroversione quando esercita il mestiere di buffone di corte; è invece una figura introversa, e da intimizzare, quando è solo oppure quando è con Gilda. Badate alla guizzante introduzione strumentale che annuncia l'entrata di Gilda subito dopo la conclusione del «Pari siamo».
Un critico bacchettone e «idealista» vi dirà che è rozza e pacchiana.
In linea puramente musicale avrà ragione.
Ma un critico, di solito, è bacchettone e «idealista», e talora anche imbecille, per una ragione molto semplice: è un topolino di biblioteca che non ha il minimo senso del teatro e dell’effetto scenico.
E appunto sul piano dell'effetto scenico - che Verdi si poneva e è geniale. È il soffio della giovinezza di Gilda, è il bagliore dell’unica ragione di vita d'un uomo disperato, che si riscuote dalle cupe fantasticherie e dai neri presagi. Come notava, Stendhal (che sempre più mi convinco essere stato uno dei maggiori critici musicali della storia) tra le funzioni dell'orchestra, nell'opera italiana, determinante è quella non già di sostituirsi al canto del personaggio, al modo tedesco, ma di anticipare con concisione all'ascoltatore la situazione che i personaggi s'apprestano a vivere. Quest'anticipazione è spesso affidata ai colori strumentali. Qui i colori fondamentali sono quelli dei violini primi, dei flauti, dell'ottavino, degli oboe e dei clarinetti: chiari, delicati. ma anche festosi (per i trilli). Ecco così anticipati il candore, la giovinezza e l'affettuosità di Gilda. Muta di colpo tutta l'atmosfera, l'uomo cupo e sospettoso diverge verso la tenerezza e la pateticità.
E chiaramente il duetto che segue dovrebbe essere quasi tutto «sospirato» dal baritono; e molti ci provano, infatti, ma non sapendo cantare o si opacizzano o si strozzano; e talvolta anche stonano. Perché siamo alle solite: il Verdi che fa toccare al baritono la corda patetica, prova il bisogno irresistibile di portarlo su tessiture acute per dargli abbandoni quasi tenorili. Salvo, poi, a farlo squillare in frasi come «Culto, famiglia, la patria, il mio universo è in te». E anche qui la tessitura è abbastanza alta, ma l'assunto che il personaggio proclama, il modo iperbolico nel quale enuncia i valori in cui crede, esigono squillo, non suoni opachi o urla, e grande ampiezza d’accento.
Perciò Verdi è difficile; e Rigoletto difficilissimo.
Per questi contrasti repentini. Lasciamo stare le urla bestiali di «Gilda! Gilda!» alla conclusione del I atto, proprio mentre Verdi scrive: «Vorrebbe gridare, ma non può...» Altra favolosa intuizione teatrale. I violini, se fate bene attenzione, proprio questo esprimono: un crescente sbigottimento che mozza il fiato, che toglie la parola. Ed ecco i «la rà, la rà» del II atto; e dovrebbero essere uno diverso dall'altro, come colore, come intensità, ma in perfetta misura. Una volta, poi, in un teatro abbastanza importante, un baritono abbastanza importante, alla frase «Ove l'avran nascosta?» (da sussurrare, perché Piave la mette tra parentesi) non solo non sussurrò, ma si chinò a guardare sotto un tavolo, come se infallantemente Gilda fosse stata nascosta lì. «Elementare, mio caro Watson». Ed ecco l'invettiva ai cortigiani, che poi sbocca, improvvisamente, nella preghiera «Miei signori». Badate a come è ansante il fraseggio di «Cortigiani», a come sono irregolari e spasmodiche le riprese di fiato, ispirate non alle necessità musicali-vocali, ma al ritmo, alle cadenze del linguaggio parlato e quindi verista.
Anche l'andamento apparentemente declamatorio (e di tessitura piuttosto alta, pur senza essere acutissima) sollecita il grido verista. Questi sono i tranelli che Rigoletto tende agli interpreti. E dopo tutto questo, ecco, d'improvviso, la melodia patetica, ma interrotta da incisi convulsi che anch'essi blandiscono gli istinti veristi perché verista è l'ansimare del fraseggio: «Dimmi tu / dove l'hanno nascosta? / È là / non è vero? / è la? / non è vero?» etc. E come si fa a non resistere alla tentazione? Quindi Rigoletto muta dimensioni, diviene padre nobile e vendicatore. Ma vendicatore al modo di Victor Hugo: giustiziere, cioè, non autore o promotore d'un delitto d'onore qualsiasi. Ed ecco intervenire lo stile grandioso. Nell'Allegro Vivo del «Sì, vendetta» spesso non lo si percepisce e per tre ragioni: i direttori e i baritoni precipitano i tempi; il baritono spiana tutte o quasi tutte le terzine semivocalizzate, che Verdi ha scritto non per capriccio, ma nobilitare e spaludare una melodia che, diversamente, suona secca ed elementare; sempre il baritono, infine, cerca l'accento rissoso, invece che l'accento del giustiziere. Ho già detto abbastanza.
Aggiungo soltanto che tutti o quasi tutti i recitativi dell'ultimo atto andrebbero cantati con il suono tondo e l'accento altisonante e solenne d'un sacerdote. Giacché Rigoletto celebra il rito della giustizia e Verdi è profondamente convinto che ciò sia legittimo. Che poi il caso si ritorca contro il protagonista è un'altra questione.
Il Conte di Luna è il più ferrigno ritratto di uomo medievale dalle passioni sfrenate che figuri nell'opera verdiana. Ha tessiture altissime, quasi tenorili nell'aria «II balen del suo sorriso», che è d'altronde uno splendido, appassionato canto d'amore. Eseguirlo con tutti i segni d'espressione previsti da Verdi è, credo, materialmente impossibile. Dirò che questo personaggio m'entusiasma. Nel terzetto del I atto, nella cabaletta «Non può nemmeno un Dio», nel duetto con Azucena, nel duetto con Leonora ha uno slancio ritmico e un braccare la preda che travolgono.
Ma anche a lui lo stile grandioso è indispensabile.
Ha qualche cosa di omerico, in certi suoi smodati furori e in certa sua iattanza; ed è anche il mitico «vilain» da ballata popolare. Suo fratello in iattanza, in irriducibili furori e in tessiture altissime è Carlo de Vargas della Forza del destino; ma con un fondo di nobiltà che l'aria «Urna fatale» (oggi regolarmente abbassata di mezzo tono per la sua altezza di tessitura) esprime o dovrebbe esprimere. Credo di averlo già detto altre volte.
Il Carlo della Forza del destino è l'emblema d'un codice cavalieresco. Spietato, disumano, ma cavalieresco. E come potrebbe non avere lo stile grandioso? Come potrebbe non averlo il Renato del Ballo in maschera, uno dei personaggi più maltrattati dai baritoni della scuola del muggito, se è una figura umanissima, nobilissima e dolorosa, ma anch'essa vincolata a un codice cavalieresco che è uno dei cardini di quasi tutto il melodramma e di quasi tutto il teatro di prosa romantico?
Ma parlavo, nella parte iniziale, del Verdi che nelle opere giovanili sottrae al tenore le melodie tenere e nostalgiche per insignirne il baritono, sua voce prediletta.
La frase «O dolcezze perdute, o memorie» è il punto d'arrivo di questa tendenza, il passo più tenorile, forse, scritto da Verdi.
E Mattia Battistini, che era un vero baritono, ma dalla mezzavoce tenorile, lo cantava. Ma ritolte spesso al tenore certe effusioni nostalgiche, altrettanto spesso Verdi mortificò il basso, spogliandolo delle parti di padre.
Giorgio Gérmont della Traviata è un altro personaggio calunniato e incompreso. La cantilena «Di Provenza» (uno dei migliori Andanti da lui scritti, dichiarò una volta Verdi) è d'una affettuosità toccante. Ma bisogna saperla cantare con levità e abbandono, altrimenti diviene una filastrocca. E anche il duetto con Violetta è quasi tutto levità, sussurri e giochi di colore. L'inerzia stilistica e interpretativa d'un Bastianini a fianco d'una Callas che alla Scala dava l'anima, in certi pianissimi laceranti, resta uno dei peggiori oltraggi che le mie orecchie e la mia sensibilità abbiano mai sopportato. E questo anche se i suoni erano buoni. Buoni, ma insignificanti. Ricordo che lo rilevò anche Eugenio Montale, allora critico del «Corriere d'informazione». Scrisse più o meno questo: «i baritoni di oggi non hanno idea di come debba cantare un padre in Verdi».
Anche Simon Boccanegra è spesso inadeguatamente servito.
Se c'è un personaggio che, con evidenza palmare, corra lungo la direttrice stile patetico-stile grandioso, è Simone, portatore di ideali civili in cui Francesco Petrarca e Giuseppe Verdi si assimilano, ma padre d'una affettuosità mitica. Il duetto Simone-Amalia ha quel sapore schiettissimo di ballata popolare che, iniziato nei duetti padre-figlia della Giovanna d'Arco e della Luisa Miller, qui raggiunge il culmine. È la storia dell'orfanella, del vedovo inconsolabile e dell'agnizione, che in Verddi trova la sublimazione.
Volete sapere perché amo Verdi?
Perché tramutò i sentimenti elementari d'un immaginoso popolo contadino - dalla pietas alla superstizione, dal senso del campanile alla faida - in un'immensa saga melodrammatica.
Amonasro? Come può non essere aulico e grandioso, se è un re guerriero? E Rodrigo di Posa? La vecchia figura dell'amico e del confidente, relegata in genere ai margini della vicenda melodrammatica, per merito di Verdi nel Don Carlo giganteggia. Verdi l'ideò per Faure, uno dei baritoni più eleganti e «grandi seigneur» dell'epoca. Ma in Italia, in Inghilterra, in Russia Rodrigo di Posa fu divulgato da Antonio Cotogni, che insieme a Francesco Graziani, Leone Giraldoni e Gottardo Aldighieri costituì il gruppo dei baritoni storici di Verdi tra il 1860 e il 1880.
La predilezione di Verdi per il baritono esplode senza ritegno nelle due ultime opere.
Tra un beota (Otello) e un'oca (Desdemona), Jago, unico barlume d'intelligenza nel pasticcio combinato da Boito, giganteggia perché elegante, sofista, dialettico. È lui il protagonista e la prova provata (anticipata d'altronde da certe lettere di Verdi) l'hanno fornita Renato Bruson e Riccardo Muti in un recente Otello fiorentino. Bruson è il primo, autentico e completo Jago da me visto e ascoltato. Più completo perfino di Warren, che pure, in tempo di muggiti, di cachinni, di urla becere e di «quel fazzoletto io vidi in man di Cassio» strepitato, aveva ben capito come la cosa funzionasse. E infatti il pubblico scaligero degli anni Cinquanta restò di gelo.
Il peggior pubblico di tutta la storia dell'opera, specializzato nell'esaltazione di magliari della vocalità. Ma non solo quello della Scala.
Ho udito, recentemente, la registrazione d'un concerto tenuto, non so se a Roma o a Torino, nel 1954, da Gigli e dalla Callas. Per Gigli, ormai esausto, che sbraita in modo indegno l'Improvviso dello Chénier, urla frenetiche; per la Callas, che esegue la grande aria di Costanza del Ratto dal serraglio con l'impeto drammatico e la coloratura serrata e mordente che il vero Mozart richiede (e il vero Mozart non è quello delle subrettine inglesi e tedesche) applausi tutt'al più cordiali.
Iago è tutto un gioco di colori tenui e sfumati, di accenti sottili, di allusioni. Fa storia a sé, nella genealogia del baritono verdiano. Canta su un doppio registro, giacché spesso tenoreggia, e non è, naturalmente, né grandioso, né patetico, ma «loico» [ndr: loico=chi si dedica allo studio della logica, ragionatore acuto]. Come lo è, a suo modo Falstaff, al quale Verdi diede anche qualche gradazione del basso, in aggiunta a una base baritonale e a vezzeggiamenti tenorili. E fu, come Iago, una parte scritta ad personam. Verdi aveva trovato in Victor Maurel un cantante che parlava alla sua fantasia. Non furono molti i cantanti capaci di parlare alla fantasia di Verdi: il tenore Fraschini, la Patti, la Stoltz e Maurel nel senso più ampio della parola; la Frezzolini, la Cruvelli, la Lynd, la Barbieri-Nini, la Waldmann, il baritono Coletti e fors'anche il baritono De Bassini in un senso più contingente e transitorio. Tutto qui, dall'Oberto di San Bonifacio al Falstaff.
C'è da premettere che né Ronchi, né Cavalli, né io abbiamo ascoltato Amato dal vivo. Ci basiamo, dunque, su dischi che, tra l'altro, raramente offrono confronti diretti con le parti verdiane in cui Bruson eccelle: Simon Boccanegra, Macbeth e ora, anche Jago. A me sembra che nel Verdi più tradizionale (Rigoletto, Forza del destino, Trovatore, Ballo in maschera) i dischi di Amato lasciano udire un'estensione, una timbratura, uno squillo, una facilità e anche un'aggressività e imponenza d'accento che a Bruson mancano. Anche la varietà dei colori e l'uso delle mezzevoci sembrano favorire Amato, che, in definitiva, è completo sul piano sia dello stile patetico, sia dello stile grandioso. Ma è soprattutto questione di superiorità tecnica. Sembrerà strano, ma centi punti deboli di Bruson non dipendono da limitazioni congenite, ma da un passaggio di registro ritardato e incompleto (la voce che tende a sbiancarsi e a stimbrarsi in certi acuti, il gioco delle mezzevoci meno sicuro in zona alta e simili).
Detto questo, è chiaro che nello stile grandioso da spiegare sulle alte tessiture, Bruson deve difendersi, anche se lo fa con intelligenza, finezza e musicalità. Ma ha un timbro d'una melodiosità, d'un calore, d'una nobiltà, d'un velluto affascinanti; e una suggestione, nel genere patetico, alla quale è difficile resistere.
Senza contare il gusto severo e, nei confronti di Amato, ben più aggiornato. Poi c'è l'attore. Bruson è un vero attore-cantante. Dicono le cronache che anche Amato lo era. Ma chi di noi l'ha visto recitare?
La pubblicazione di questo articolo è fatta a favore di quanti non possono fruirne attraverso le pubblicazioni ufficiali e non ha fini di lucro. Non riesco, dalle fotocopie , ad individuare la testata per la quale fu a quel tempo scritto e pubblicato. Qualora vengano violati i diritti di qualcuno basta avvisare e sarà eliminato.
Dolente, sdegnato solenne, cantò
Il baritono verdiano e i suoi molteplici ruoli.
di Rodolfo Celletti
La richiesta di parlare del baritono verdiano mi fu rivolta dall'Ing. Ronchi di Salerno in una lettera che, inorridisco nel constatarlo, porta la data del 15 novembre 1978. Da allora l'ing. Ronchi è diventato per me una specie di «amico di penna», come si dice fra coloro che di tanto in tanto si scrivono senza conoscersi personalmente. È uno dei lettori, fra l'altro, che di quando in quando riforniscono la cartella «Ire, sdegni e sfoghi» e gli debbo questo tributo.
Ma sono poi intervenuti altri lettori. Per esempio. Paolo Cavalli di Parma che, per inciso, vorrebbe confutare (ma parzialmente) proprio un giudizio limitativo che a suo tempo l'ing. Ronchi diede di Renato Bruson e che io riportai. Ne riparleremo. Ancor più recentemente, mi ha sollecitato a tracciare la storia del baritono verdiano anche Fabio Poggi, di Asti, con una lettera da «Ire, sdegni e sfoghi» («more solito») che si riferisce, in particolare, a certe esecuzioni torinesi. Ed eccomi qui. Ma l'argomento è quello che è: lungo, oltre che complesso quindi questa specie di saggio lo suddividerò in due parti: dal Nabucco alla Luisa Miller e dalla «Trilogia» al Falstaff.
DAL NABUCCO A LUISA MILLER
Non è possibile dare una definizione univoca del ruolo e della posizione del baritono nell'operismo verdiano. Questo vale già per i primi lavori. Si sa che, nel melodramma romantico, la funzione prevalente del baritono è quella di antagonista del tenore, per ragioni che vanno dalla rivalità in amore a contrasti politici e a faide familiari. Appunto come antagonista, il baritono ordisce intrighi e trame delittuose che, con il tenore, colpiscono quasi sempre anche il soprano. Per ciò stesso, il baritono appare come la longa manus del male nel conflitto romantico tra la malvagità e i personaggi che simboleggiano il bene. Questa però è una definizione schematica e largamente incompleta. Già in Bellini e in Donizetti, infatti, il baritono può avere altri lineamenti e configurare personaggi generosi e cavaliereschi, quando addirittura non incarna figure eroiche o di grande levatura morale e artistica, come Belisario e Torquato Tasso in Donizetti. Sempre in Donizetti, il baritono può fungere da amoroso: o tanto sventurato da impazzirne (come Cardenio del Furioso) o fortunato, come Don Pedro della Maria Padilla, in cui, tra l'altro, il tenore è relegato in una parte di padre.
Questo quadro ampio e vario di attribuzioni, diviene ancor più complesso con Verdi, il quale, fra l'altro, finì per attribuire al baritono anche caratteristiche di timbro, di colore, d'estensione e di tessitura che ne fecero un registro vocale per vari aspetti nuovo. Su questa strada, è bene precisarlo. Verdi si mantenne piuttosto distante da Bellini e dal primo Donizetti. mentre con l'ultimo Donizetti il rapporto fu non soltanto più stretto, ma duplice. Donizetti precorse Verdi sia nella complessità psicologico-vocale di certe parti baritonali (appunto Cardenio, Belisario, Torquato Tasso), sia in certe caratteristiche di scrittura, ma ad un certo punto il giovane Verdi gli si affiancò e, sia pure per un breve tratto, lo precedette, suggerendogli, tramite l'impiego che fece di Giorgio Ronconi nel Nabucco, qualche connotato del Duca di Chevreuse della Maria di Rohan.
Ma, sempre a proposito di Donizetti, non dobbiamo dimenticare che fu lui a codificare, nella Linda di Chamounix. l'attribuzione al baritono di quelle parti di padre «nobile» (anche se di umile condizione) che Verdi fece poi proprie nella Giovanna d'Arco, come primo tentativo, quindi nella Luisa Miller e nel Rigoletto.
A questo punto, per rendere più accessibili certe vicende della voce baritonale, ricorderò che nel melodramma italiano serio del Sei/Settecento questo registro non esisteva. O meglio, esisteva sotto altre denominazioni.
Le voci maschili del nostro operismo furono, fino a Rossini, sol tanto due: tenore e basso.
Ma il tenore era baritonaleggiante come timbro e colore ed esplicava le funzioni del baritono anche come ruoli. Era infatti antagonista - spesso con i tratti del personaggio «vilain» protervo e brutale - oppure caratterista: confidente, amico, padre nobile. A loro volta i bassi potevano avere qualche carattere baritonale e fungere anch'essi da antagonisti o da caratteristi (con l'aggiunta, spesso, di parti da re o da sacerdote).
Quando però il tenore baritonale, causa la progressiva rarefazione dei castrati, cominciò a sostenere, in alternativa con il contralto «in travesti», parti di amoroso, si creò la necessità di sostituirlo nei ruoli di antagonista e di caratterista con una voce che se ne differenziasse timbricamente.
Comparve così il basso cantante, dotato d'una voce capace di sostenere tessiture più acute di quelle di solito scritte per il basso autentico.
Il basso cantante fu il più immediato precursore del baritono e forse qualcosa di più, se pensiamo che tutte le parti scritte da Bellini per basso cantante (e molte di quelle scritte da Donizetti) sono oggi cantate da baritoni. Donizetti scrisse su tessiture più acute di Bellini per le opere in cui potè disporre di Giorgio Ronconi (Furioso, Torquato Tasso e soprattutto. Maria di Rohan).
Ronconi, infatti, pur essendo anch'egli ufficialmente definito un basso cantante, vantava in realtà un registro acuto esteso e quasi tenoreggiante.
Fu il primo autentico baritono della storia dell'opera italiana e il suo tipo vocale finì per fare testo giacchè, nel frattempo, era nato e s'era imposto il tenore romantico chiaro e acuto varato da Bellini in Pirata, Sonnambula, Puritani. In definitiva, il fulcro della questione fu quello di tenere distinto, tramite il timbro e il colore, l'amoroso dall'antagonista. Quando il romanticismo introdusse un tenore chiaro che per il timbro stilizzato e il colore della voce poteva in qualche modo ricordare i castrati - e precipuamente i contraltisti - per differenziare l'antagonista bastò il timbro e il colore di Ronconi, che in sostanza altri non era che una reincarnazione del vecchio tenore baritonale del Sei/Settecento. Analogamente, quando il verismo concepì, tra la fine dell'Ottocento e i primi del nostro secolo, il tenore «centrale» alla Caruso o alla Zenatello, o i compositori introdussero tessiture baritonali più basse per differenziare l'antagonista dall'amoroso (si pensi a Rance della Fanciulla del West o allo stesso Scarpia) ovvero i baritoni provvidero motu proprio a pompane e a scurire i centri, con i noti risultati: voce forzata, indurita e accorciata non tanto in rapporto alle parti da eseguire nel repertorio verista, quanto a quelle verdiane.
Verdi partì, già con il Nabucco (scritto per Ronconi) da strutture prettamente baritonali, tramutando in regola fissa ciò che per Donizetti era stato un comportamento sporadico. Alcuni personaggi, è vero, come Giacomo della Giovanna d'Arco, Francesco Moor dei Masnadieri, Rolando della Battaglia di Legnano, Stankar dello Stiffelio hanno tessiture lievemente meno acute di quelle del baritono verdiano più tipico. Lo si deve al fatto che Filippo Coletti (il primo Francesco Moor) e Filippo Colini (il primo Giacomo, il primo Rolando. il primo Stankar) provenivano dalle file dei bassi cantanti donizettiani e ne conservavano qualche tratto. Ma è nel Nabucco, nell'Ernani, nei Due Foscari, nel Corsaro che Verdi da al baritono i tratti definitivi. E per inciso, il primo Doge dei Foscari e il primo Seid del Corsaro tu Achille De Bassini. tenoreggiante ancor più di Ronconi, tanto che aveva iniziato la carriera come tenore.
A questo punto, possiamo cominciare ad avere un'idea del capovolgimento operato da Verdi nell'impiego dei registri vocali. Assurge al rango di più importante voce maschile proprio quella che, nel melodramma belcantistico, godeva di minor prestigio. Il gusto belcantistico .aveva avversato il «baritenore». perché timbro poco stilizzato, comune, volgare, realistico. Ma proprio perché realistico, il romanticismo, e Verdi in modo precipuo, lo predilige. Da questa predilezione deriva la complessità di molte parti baritonali del periodo giovanile verdiano.
Consideriamo Nabucco, Don Carlo nell'Ernani, il Doge dei Foscari, Ezio dell’Attila, Macbeth.
Sono cinque figure che hanno in primo luogo attributi regali o quasi regali, ai quali associano, in varia misura, quelli del guerriero e del conquistatore. Dunque, il primo Verdi è portato ad attribuire alla voce baritonale la capacità di caratterizzare personaggi epicheggianti e di alta levatura storica. All'interno di questa tendenza, il meccanismo dell'opera verdiana può anche isolare Nabucco e Macbeth e ridurli ad esseri annichiliti dai rimorsi e dalla follia. Ciò implica però sconvolgimenti interiori, drammi spinti alle estreme conseguenze. Di questi drammi - o tragedie - il baritono è, per il Verdi del primo periodo, l'unica voce che possa vivere e rendere le passioni. Il timbro «non stilizzato» è proprio ciò che agli occhi di Verdi la rende la più umana e credibile nella violenza come nel dolore o nel terrore. Verdi la ritiene anche capace d'una duttilità timbrica e psicologica che non individua né nella voce «stilizzata» e alquanto artificiosa del tenore chiaro, né nella voce tenebrosa e un po' monocorde del basso. E così nel tempestoso animo di Nabucco insinuerà le toccanti melodie dell'affetto paterno; e ancora l'affetto paterno addolcirà gli sdegni del vecchio Foscari, ingiustamente umiliate. Vedremo inoltre il baritono dell’Ernani tramutarsi, da una sorta di epigono di Don Giovanni, nel generoso, nobile e lungimirante Carlo V del III atto dell'opera.
All'Ezio dell’Attila queste trasmutazioni sono invece negate. Ezio non è un carattere scavato e variegato, ma un personaggio-simbolo, un'idea politica, uno strumento di propaganda. Ma è anche banditore, in nome di Verdi, di grandi sentenze patriottiche e unitarie; ed ecco appunto,un caso di identificazione tra voce di Verdi e voce del baritono. A Ezio potrebbe riallacciarsi, in nome della passione risorgimentale verdiana, Rolando della Battaglia di Legnano, ma questa figura è scalfita dalla disavventura, tipicamente baritonale, del marito tradito, sia pure soltanto idealmente, dalla moglie e dal migliore amico.
Giacomo della Giovanna d'Arco e Stankar dello Stiffelio incarnano personaggi, abbastanza consueti nel melodramma romantico, di vecchi padri gelosi dell'onore delle figlie. Queste due figure, anche se piuttosto stereotipe musicalmente e scenicamente, denunciano la tendenza verdiana ad avvalersi del baritono, a preferenza del basso, per le parti di padre. Quanto ai personaggi di baritono «vilain» e cioè di antagonista feroce e sleale, il primo Verdi ne accoglie soltanto tre: Guzman dell’Alzira, Seid del Corsaro e Francesco Moor dei Masnadieri, figura addirittura mostruosa, ma che, fra le tre, è la più approfondita psicologicamente, grazie alla scena d'incubo del III atto.
Ho già accennato alla duttilità che caratterizza, in Verdi, il baritono.
È una qualità legata al tipo delle parti e alla scrittura vocale. La voce del baritono è di solito classificata come grave e questo è anche il suo significato in greco, lingua dalla quale il termine deriva. Ma in Verdi è più proprio considerarla come una voce intermedia e, semmai, più gravitante verso il tenore che verso il basso.
Che Verdi avesse bisogno d'un tipo vocale diverso dal basso cantante di Bellini e di molte opere di Donizetti, è abbastanza ovvio. Ben più ampia era infatti la gamma di sentimenti che egli voleva affidare al baritono.
In primo luogo Verdi aveva di questa voce, come abbiamo già visto, una concezione epicheggiante. Era quindi inevitabile che per personaggi come Nabucco, il Doge Foscari, Ezio, Carlo V, egli tendesse a fraseggi concitati e veementi situati tra il re e il sol bemolle o sol naturale acuti.
Queste note sono infatti, nel registro baritonale, particolarmente vibranti e squillanti e servono anche a tratteggiare la temibilità (o in qualche caso soltanto la tracotanza: Seid del Corsaro) di certi personaggi.
Consideriamo l'Andantino «S'apprestan gli istanti d'un'ira» fatale del Finale II del Nabucco.
Il baritono dovrebbe iniziarlo - indica Verdi - «sottovoce e cupo» (specialità di Giorgio Ronconi, per inciso). Ma improvvisamente la voce scatta verso la zona acuta alla frase «Apprestan un giorno di lutto e squallor». È il momento in cui Nabucco s'attribuisce poteri divini e lo squillo del settore alto dovrebbe avere, idealmente, qualcosa di folgorante. Analogamente nell'Attila, allorché durante il duetto con il protagonista («La destra porgimi») la voce di Ezio sale con un arpeggio al fa acuto e poi resta in zona alta emettendo note di lunghissima durata (è la famosa frase: «Avrai tu l'universo, resti l'Italia a me»), è pacifico che l'effetto voluto da Verdi si fonda sullo squillo e sulla resistenza polmonare dell'esecutore.
Sarebbe tuttavia errato pensare che un registro acuto pieno e squillante costituisca il solo requisito fondamentale del baritono verdiano. È vero, per cantare le parti baritonali di Verdi occorre un settore alto particolarmente esteso, intenso e risonante e non per nulla i francesi hanno adottato il termine di «baryton Verdi» per designare un baritono acuto. Ma tutto considerato, lo squillo del settore alto, vincolato com'è alla fonazione detta «in maschera», ad un passaggio di registro eseguito in modo ortodosso e ad un'emissione piena, vibrante, ma esente da forzature, è un problema in buona parte tecnico.
Collateralmente, si presenta il problema stilistico e interpretativo concernente i concitati e veementi fraseggi in zona alta e, in senso più generale, le parti regali ed epicheggianti.
Con molto semplicismo si è creduto, in passato, di poter affermare che, per simili fraseggi e simili parti, occorrevano un baritono e uno stile «drammatici». Viceversa lo stile più appropriato è il «grandioso». Questo termine è suggerito dallo stesso Verdi. Quando, nel già ricordato duetto dell'Attila, Ezio attacca l'andante «Tardo per gli anni e tremulo», Verdi indica: «grandioso».
La stessa indicazione ricorre per l'Andante del II atto, «Dagli immortali vertici».
È una melodia solenne, paludata, che poi diviene tesa, veemente, appassionata, ma senza nulla perdere in maestosità, alla frase, oltre a tutto enfatizzata da un raddoppio orchestrale, «Roma nel vil cadavere chi ravvisare or può».
Ecco, questo è uno dei più eloquenti esempi dello stile grandioso richiesto da Verdi al baritono sin dalle opere giovanili.
Questo stile è per lo più riservato agli Andanti e l'indicazione di «grandioso» compare anche a proposito dell'Andante Sostenuto «Franco son io, ma in core» di Giacomo, nella Giovanna d'Arco. Qui però Verdi indica: «Grandioso declamato» e in effetti stiamo parlando d'uno stile a sfondo oratorio. Generalmente Verdi adotta, per il canto «grandioso», una scrittura sillabica o semisillabica, ma proprio nell'aria di Giacomo che ho ricordato ricorrono diversi melismi, come generalmente accadeva nelle parti che avevano come primo interprete il baritono Filippo Colini. Altri esempi di stile «grandioso» sono l'Andante «Questa è dunque l'iniqua mercede» del Doge Foscari, l'Andante con moto «Ah, de' verd' anni miei» di Don Carlo (Ernani) e l'Andante Sostenuto «Pietà, rispetto, amore» eseguito da Macbeth nell'ultimo atto.
L’Andante di Don Carlo (Ernani) è una delle pagine che meglio rivelano la natura del baritono verdiano. Contiene infatti i due stili fondamentali che il primo Verdi - ma anche il Verdi successivo - richiede a questo registro vocale: il «grandioso», appunto, e il «patetico».
Prima però di esaminarlo, vorrei accennare a un altro Andante dell'Emani e cioè al «Lo vedremo, veglio audace». Qui l'esplosione di sdegno trova, nelle parole come nell'andamento melodico, una configurazione assolutamente iperbolica. La voce accenta con forza e su tessiture molto acute frasi come «Essa rugge sul tuo capo / pensa pria che tutta scenda / più feroce, più tremenda / d'una folgore su te». Ma il fraseggio, articolato su lunghi e incisivi periodi, resta largo e sostenuto e proprio questa ampiezza, unita a figurazioni verbali poco meno che apocalittiche (la vendetta del sovrano che «rugge» e che s'appresta a sfogarsi «più tremenda» d'una folgore) deve legare l'espressione del personaggio a qualcosa che non sia pura e semplice collera, ma senso della regalità offesa.
In altri termini: esprimere in questo momento pura e semplice ira, è fare del verismo o, tutt'al più, del realismo drammatico, al modo, appunto, dei baritoni veristi che cantavano Verdi negli anni Cinquanta e dei loro attuali epigoni.
Rendere invece il senso della regalità offesa è spingersi più in là e cogliere quell'essenza mitica della figura di Carlo V che, sia pure ampollosamente, è adombrata dalle parole del librettista.
E per questo occorre lo stile «grandioso».
Questo stile ricorre anche nell'Andante «O de' verd' anni miei» e precisamente nella seconda frase, ripetuta tre volte: «Vincitor de' secoli, il nome mio farò». Qui è l'epicheggiante aspirazione all'immortalità che deve suggerire, al baritono, una solennità perentoria, fatta di note ampie e squillanti. Il che sottolinea anche uno dei motivi delle tessiture acute verdiane.
Ma se le note ampie e squillanti non trovano, nell'interprete, anche una scansione e un'accentazione larghe, maestose, oratorie, l'effetto non sarà raggiunto. Né sarà raggiunto se il suono mancherà di rotondità, di pastosità e denuncerà invece forzature, fibrosità, opacità. E qui torniamo, come il cane che si morde la coda, al problema tecnico.
Lo stile è precluso a chi manca di tecnica e l'interpretazione a chi manca di stile.
Tecnica, stile e interpretazione sono tre elementi indissolubilmente collegati fra loro. L'uno condiziona l'altro. Ma l'«Ah, de' verd' anni miei» ci mostra anche l'altra tipica corda del baritono di Verdi e cioè la pateticità. La prima parte dell'aria è un lamento sulla giovinezza perduta e il carattere nostalgico e sognante della melodia è accentuato da ricorrenti fiorettature.
Non è difficile scorgere, alla base di questo andamento elegiaco-estatico, un richiamo alle nenie che, nelle loro prime opere di successo, Bellini e Donizetti scrissero per le effusioni e per i lamenti amorosi dei personaggi tenorili. Quasi mai Bellini e Donizetti scrissero per i loro bassi cantanti baritonaleggianti - da essi considerati come voci gravi - melodie così flessibili, nostalgiche e, torno a ripeterlo, così tenorili. Ed ecco un'altra spiegazione delle tessiture acute adottate da Verdi per il baritono. Verdi intende allargare in tutte le direzioni le frontiere di questo registro vocale, che vuole solenne, grandioso, epicheggiante, ma anche aperto alle timbrature e ai colori affettuosi, soavi, malinconici. E così spinge il baritono a parziali limitazioni dei timbri e dei colori del tenore attraverso melodie che nel disegno e nelle tessiture echeggiano appunto le malinconiche nenie protoromantiche. Di questo passo giungeremo a «Il balen del suo sorriso» del Trovatore e all'«O dolcezze perdute, o memorie» del Ballo in maschera, che è forse lo spunto più tenorile affidato da Verdi a un baritono.
Da qui consentitemi una divagazione.
Se qualche lettore mi chiederà di tracciare un profilo storico del tenore verdiano, lo farò. Ma allora vedremo che il Verdi giovane è a disagio, con questa voce, stenta a ricavarne un vero e proprio personaggio (Ernani è un'eccezione, ma soltanto parziale), le affida figure stereotipe e melodie in genere scarsamente caratterizzate, che ricalcano stancamente formule donizettiane e belliniane o che si sfogano in un cabalettismo quarantottesco, latore di messaggi politici e patriottici abbastanza spesso anch'essi di maniera. Ma la grande elegia, quella che aveva portato Bellini (e sulla sua scia Donizetti) a valorizzare e a imporre il tenore chiaro protoromantico, nel tenorismo del primo Verdi manca. E la ragione, io credo, è proprio nel fatto che Verdi sottrae al tenore delle opere giovanili proprio la sua linfa più caratteristica, la melodia elegiaca ed estatica, per girarla al baritono. Non solo, ma operando questo trasferimento, Verdi si servirà della «cantilena» per esprimere non soltanto la solitudine di Don Carlo nel momento in cui diviene imperatore o quella di Macbeth allorché si scatena la nemesi storica, ma l'affetto paterno nelle sue espansioni e nelle sue sofferenze. Ed ecco allora dalle labbra di Nabucco levarsi l'Adagio «Ah! perché, perché sul ciglio» o la supplica «Deh perdona a un padre che delira» (duetto con Abigaille, atto III). O anche la preghiera «Dio di Giuda», anch'essa tipica dello stile patetico. Tutte queste melodie hanno, oltre che le tessiture tendenzialmente acute, i caratteri classici della nenia dolente, trepidante e nostalgica: andamento molto legato, motivo che si snoda per moto contiguo o per brevi intervalli, fiorettature o, quanto meno, scrittura non sillabica, ma semisillabica o neumatica. La malinconia e la tenerezza della nenia caratterizzano il fiorettato Andante in 6/8 «O vecchio cor che batti» del Doge Foscari, la prima parte della romanza «Speme al vecchio era una figlia» di Giacomo (Giovanna d'Arco) e, sempre nella Giovanna d'Arco, l'«Ella innocente e pura», primo esempio degli affettuosi, tenerissimi duetti tra il baritono e il soprano di Verdi, rispettivamente in veste di padre e di figlia.
Ed eccoci alla Luisa Miller, opera di frontiera.
Per diversi aspetti appartiene al primo Verdi, per altri al Verdi della «Trilogia». Verdi, nella Luisa Miller, prende finalmente confidenza con il tenore, alla cui voce per la prima volta affida un vero personaggio; ed anche una vera, autentica melodia elegiaca e lunare insieme: «Quando le sere al placido». Il personaggio di Luisa, a sua volta, porta Verdi a certi criteri introspettivi che anticipano Violetta. E Miller, infine, è uno dei padri più riusciti. I personaggi sono solenni e maestosi, in Verdi, o per rango o per altezza morale. Miller lo è per altezza morale. L'Andante «Sacra è la scelta d'un consorte» porta puntualmente, all'inizio, l'indicazione: «Grandioso»; e ci presenta il caso del principio etico verdiano affidato alla voce baritonale: il diritto della donna di non subire costrizioni. Cantava Miller, alla prima rappresentazione (1849), Achille De Bassini, il più verdiano dei baritoni di quegli anni come fuoco ed energia, ma anchen- l'ho già detto - il più tenoreggiante. La conseguenza è che in quest'aria Miller fraseggia sillabando - «sillabando», non vocalizzando - su una tessitura per l'epoca acutissima. È un continuo battere, in certi momenti, tra il re e il fa acuti, con ascese anche al sol bemolle. Siamo però alle solite. La voce deve avere squillo, ma se l'esecutore forza o comunque mostra fatica, manomette il «legato» e scalfisce il senso di ciò che canta. La frase «In terra un padre somiglia Iddio / per la bontade, non pel rigor» richiede un accento perentorio, ma anche calda umanità. E l'umanità non la si esprime né con l'urlo, né con il muggito. La statura morale che Verdi vuole attribuire a Miller riappare nel Finale I, all'Andantino: «Fra mortali ancora oppressa»; e qui di nuovo, alla frase «A quel Dio ti prostra innante». Verdi indica: «grandioso». Ma al III atto, al «grandioso» sottentra il «patetico». L'Allegro assai Moderato «Andrem raminghi e poveri» è una di quelle melodie da ballata popolare la cui estrema semplicità sgorga dallo spirito delle società contadina. E’ il sapore di cantilena va reso da una emissione lieve, dolce, trasognata. In definitiva, Miller è una delle figure baritonali più tipiche di Verdi.
È il Giacomo della Giovanna d'Arco trasfigurato, elevato, musicalmente e scenicamente, a una solennità quasi patriarcale e, poi, di colpo, prostrato dalla sventura. Prendete un simile personaggio, cancellate il suo passato di soldato, fatelo vivere, anziché in un ambiente contadino, in una corte licenziosa, intrigante, sordida. Avrete Rigoletto.
DALLA TRILOGIA AL FALSTAFF
Rigoletto è uno dei personaggi più mitizzati di Verdi. Corrisponde, per un baritono, a ciò che è Violetta per i soprani o Manrico per i tenori. Dipende dalla complessità del personaggio. Complessità psicologica e conseguentemente, complessità vocale. È una figura contraddittoria. un concentrato di odio e di amore, di nobiltà e di abiezione. È il baritono che trama, secondo i doveri del deus ex machina del melodramma romantico, le insidie in cui dovrà cadere il tenore; ma queste insidie, improvvisamente e contro ogni regola, si ritorcono a suo danno. Ciò proietta su di lui una luce tutta particolare e ne fa uno dei personaggi più dolorosi di Verdi.
Inoltre è un essere dalla doppia vita, cupo, misterioso: è il «brutto tenebroso», contrapposto ai bei tenebrosi di stampo tenorile, come Gualtiero il pirata, Edgardo, Ernani. Visto come tipo vocale, è uno dei personaggi verdiani che più s'è trovato esposto, dall'inizio del nostro secolo in poi, alla veristizzazione. Soltanto Otello, Jago, Amonasro. Azucena e Amneris sono stati sconciati quanto Rigoletto. La collezione di gigionate che si può consegnare al museo degli orrori, dopo che si sono ascoltate le numerosissime edizioni in disco dell'opera, è talmente copiosa, ma anche talmente nota, da dissuadermi dal compilarne un inventario.
Direi però, a parziale giustificazione sia degli interpreti, sia dei critici e dei pubblici che li avallarono, che era molto facile, dieci anni fa come trenta o cinquanta o settanta, cadere nell'equivoco. Anzitutto, Rigoletto è deforme. Portate in scena una qualsivoglia deformità, anche in epoche non precipuamente tendenti al verismo. e vedrete l'interprete accentuarla e dilatarla. Perché Rigoletto, oltre che gobbo, debba essere anche sciancato – come spesso avviene di constatare in teatro – non l’ho mai capito. In secondo luogo Rigoletto è un buffone.
E anche questo è un tratto che agli interpreti piace dilatare; e spesso anche ai registi.
Ma la spiegazione più calzante, forse nelle tentazioni veriste, è nella conformazione del personaggio.
Sin dall'inizio Rigoletto inbocca la strada della declamazione e la batte a lungo: nella scena della festa, nel colloquio con Sparafucile, nel monologo «Pari siamo». Intendiamoci: poche altre volte un operista prestò a un personaggio una declamazione così duttile, varia e ariosa come Verdi a Rigoletto nel duetto con Sparafucile o in «Pari siamo».
Ma quello che sfugge normalmente ai baritoni, e anche ai direttori, è che la scena Rigoletto-Sparafucile è allucinante, soprattutto per i colori orchestrali, e che l'allucinazione, nel canto, salvo contrarie indicazioni dell'autore, la si esprime cantando con un filo di voce: timbrato, s'intende, non opaco o falsettato. E con un fil di voce, tranne la chiusa e pochi altri punti, dovrebbe essere cantato il monologo. A parte tutto, proprio perché è un monologo.
In definitiva. Rigoletto è un personaggio di petulante, ma non sguaiata estroversione quando esercita il mestiere di buffone di corte; è invece una figura introversa, e da intimizzare, quando è solo oppure quando è con Gilda. Badate alla guizzante introduzione strumentale che annuncia l'entrata di Gilda subito dopo la conclusione del «Pari siamo».
Un critico bacchettone e «idealista» vi dirà che è rozza e pacchiana.
In linea puramente musicale avrà ragione.
Ma un critico, di solito, è bacchettone e «idealista», e talora anche imbecille, per una ragione molto semplice: è un topolino di biblioteca che non ha il minimo senso del teatro e dell’effetto scenico.
E appunto sul piano dell'effetto scenico - che Verdi si poneva e è geniale. È il soffio della giovinezza di Gilda, è il bagliore dell’unica ragione di vita d'un uomo disperato, che si riscuote dalle cupe fantasticherie e dai neri presagi. Come notava, Stendhal (che sempre più mi convinco essere stato uno dei maggiori critici musicali della storia) tra le funzioni dell'orchestra, nell'opera italiana, determinante è quella non già di sostituirsi al canto del personaggio, al modo tedesco, ma di anticipare con concisione all'ascoltatore la situazione che i personaggi s'apprestano a vivere. Quest'anticipazione è spesso affidata ai colori strumentali. Qui i colori fondamentali sono quelli dei violini primi, dei flauti, dell'ottavino, degli oboe e dei clarinetti: chiari, delicati. ma anche festosi (per i trilli). Ecco così anticipati il candore, la giovinezza e l'affettuosità di Gilda. Muta di colpo tutta l'atmosfera, l'uomo cupo e sospettoso diverge verso la tenerezza e la pateticità.
E chiaramente il duetto che segue dovrebbe essere quasi tutto «sospirato» dal baritono; e molti ci provano, infatti, ma non sapendo cantare o si opacizzano o si strozzano; e talvolta anche stonano. Perché siamo alle solite: il Verdi che fa toccare al baritono la corda patetica, prova il bisogno irresistibile di portarlo su tessiture acute per dargli abbandoni quasi tenorili. Salvo, poi, a farlo squillare in frasi come «Culto, famiglia, la patria, il mio universo è in te». E anche qui la tessitura è abbastanza alta, ma l'assunto che il personaggio proclama, il modo iperbolico nel quale enuncia i valori in cui crede, esigono squillo, non suoni opachi o urla, e grande ampiezza d’accento.
Perciò Verdi è difficile; e Rigoletto difficilissimo.
Per questi contrasti repentini. Lasciamo stare le urla bestiali di «Gilda! Gilda!» alla conclusione del I atto, proprio mentre Verdi scrive: «Vorrebbe gridare, ma non può...» Altra favolosa intuizione teatrale. I violini, se fate bene attenzione, proprio questo esprimono: un crescente sbigottimento che mozza il fiato, che toglie la parola. Ed ecco i «la rà, la rà» del II atto; e dovrebbero essere uno diverso dall'altro, come colore, come intensità, ma in perfetta misura. Una volta, poi, in un teatro abbastanza importante, un baritono abbastanza importante, alla frase «Ove l'avran nascosta?» (da sussurrare, perché Piave la mette tra parentesi) non solo non sussurrò, ma si chinò a guardare sotto un tavolo, come se infallantemente Gilda fosse stata nascosta lì. «Elementare, mio caro Watson». Ed ecco l'invettiva ai cortigiani, che poi sbocca, improvvisamente, nella preghiera «Miei signori». Badate a come è ansante il fraseggio di «Cortigiani», a come sono irregolari e spasmodiche le riprese di fiato, ispirate non alle necessità musicali-vocali, ma al ritmo, alle cadenze del linguaggio parlato e quindi verista.
Anche l'andamento apparentemente declamatorio (e di tessitura piuttosto alta, pur senza essere acutissima) sollecita il grido verista. Questi sono i tranelli che Rigoletto tende agli interpreti. E dopo tutto questo, ecco, d'improvviso, la melodia patetica, ma interrotta da incisi convulsi che anch'essi blandiscono gli istinti veristi perché verista è l'ansimare del fraseggio: «Dimmi tu / dove l'hanno nascosta? / È là / non è vero? / è la? / non è vero?» etc. E come si fa a non resistere alla tentazione? Quindi Rigoletto muta dimensioni, diviene padre nobile e vendicatore. Ma vendicatore al modo di Victor Hugo: giustiziere, cioè, non autore o promotore d'un delitto d'onore qualsiasi. Ed ecco intervenire lo stile grandioso. Nell'Allegro Vivo del «Sì, vendetta» spesso non lo si percepisce e per tre ragioni: i direttori e i baritoni precipitano i tempi; il baritono spiana tutte o quasi tutte le terzine semivocalizzate, che Verdi ha scritto non per capriccio, ma nobilitare e spaludare una melodia che, diversamente, suona secca ed elementare; sempre il baritono, infine, cerca l'accento rissoso, invece che l'accento del giustiziere. Ho già detto abbastanza.
Aggiungo soltanto che tutti o quasi tutti i recitativi dell'ultimo atto andrebbero cantati con il suono tondo e l'accento altisonante e solenne d'un sacerdote. Giacché Rigoletto celebra il rito della giustizia e Verdi è profondamente convinto che ciò sia legittimo. Che poi il caso si ritorca contro il protagonista è un'altra questione.
Il Conte di Luna è il più ferrigno ritratto di uomo medievale dalle passioni sfrenate che figuri nell'opera verdiana. Ha tessiture altissime, quasi tenorili nell'aria «II balen del suo sorriso», che è d'altronde uno splendido, appassionato canto d'amore. Eseguirlo con tutti i segni d'espressione previsti da Verdi è, credo, materialmente impossibile. Dirò che questo personaggio m'entusiasma. Nel terzetto del I atto, nella cabaletta «Non può nemmeno un Dio», nel duetto con Azucena, nel duetto con Leonora ha uno slancio ritmico e un braccare la preda che travolgono.
Ma anche a lui lo stile grandioso è indispensabile.
Ha qualche cosa di omerico, in certi suoi smodati furori e in certa sua iattanza; ed è anche il mitico «vilain» da ballata popolare. Suo fratello in iattanza, in irriducibili furori e in tessiture altissime è Carlo de Vargas della Forza del destino; ma con un fondo di nobiltà che l'aria «Urna fatale» (oggi regolarmente abbassata di mezzo tono per la sua altezza di tessitura) esprime o dovrebbe esprimere. Credo di averlo già detto altre volte.
Il Carlo della Forza del destino è l'emblema d'un codice cavalieresco. Spietato, disumano, ma cavalieresco. E come potrebbe non avere lo stile grandioso? Come potrebbe non averlo il Renato del Ballo in maschera, uno dei personaggi più maltrattati dai baritoni della scuola del muggito, se è una figura umanissima, nobilissima e dolorosa, ma anch'essa vincolata a un codice cavalieresco che è uno dei cardini di quasi tutto il melodramma e di quasi tutto il teatro di prosa romantico?
Ma parlavo, nella parte iniziale, del Verdi che nelle opere giovanili sottrae al tenore le melodie tenere e nostalgiche per insignirne il baritono, sua voce prediletta.
La frase «O dolcezze perdute, o memorie» è il punto d'arrivo di questa tendenza, il passo più tenorile, forse, scritto da Verdi.
E Mattia Battistini, che era un vero baritono, ma dalla mezzavoce tenorile, lo cantava. Ma ritolte spesso al tenore certe effusioni nostalgiche, altrettanto spesso Verdi mortificò il basso, spogliandolo delle parti di padre.
Giorgio Gérmont della Traviata è un altro personaggio calunniato e incompreso. La cantilena «Di Provenza» (uno dei migliori Andanti da lui scritti, dichiarò una volta Verdi) è d'una affettuosità toccante. Ma bisogna saperla cantare con levità e abbandono, altrimenti diviene una filastrocca. E anche il duetto con Violetta è quasi tutto levità, sussurri e giochi di colore. L'inerzia stilistica e interpretativa d'un Bastianini a fianco d'una Callas che alla Scala dava l'anima, in certi pianissimi laceranti, resta uno dei peggiori oltraggi che le mie orecchie e la mia sensibilità abbiano mai sopportato. E questo anche se i suoni erano buoni. Buoni, ma insignificanti. Ricordo che lo rilevò anche Eugenio Montale, allora critico del «Corriere d'informazione». Scrisse più o meno questo: «i baritoni di oggi non hanno idea di come debba cantare un padre in Verdi».
Anche Simon Boccanegra è spesso inadeguatamente servito.
Se c'è un personaggio che, con evidenza palmare, corra lungo la direttrice stile patetico-stile grandioso, è Simone, portatore di ideali civili in cui Francesco Petrarca e Giuseppe Verdi si assimilano, ma padre d'una affettuosità mitica. Il duetto Simone-Amalia ha quel sapore schiettissimo di ballata popolare che, iniziato nei duetti padre-figlia della Giovanna d'Arco e della Luisa Miller, qui raggiunge il culmine. È la storia dell'orfanella, del vedovo inconsolabile e dell'agnizione, che in Verddi trova la sublimazione.
Volete sapere perché amo Verdi?
Perché tramutò i sentimenti elementari d'un immaginoso popolo contadino - dalla pietas alla superstizione, dal senso del campanile alla faida - in un'immensa saga melodrammatica.
Amonasro? Come può non essere aulico e grandioso, se è un re guerriero? E Rodrigo di Posa? La vecchia figura dell'amico e del confidente, relegata in genere ai margini della vicenda melodrammatica, per merito di Verdi nel Don Carlo giganteggia. Verdi l'ideò per Faure, uno dei baritoni più eleganti e «grandi seigneur» dell'epoca. Ma in Italia, in Inghilterra, in Russia Rodrigo di Posa fu divulgato da Antonio Cotogni, che insieme a Francesco Graziani, Leone Giraldoni e Gottardo Aldighieri costituì il gruppo dei baritoni storici di Verdi tra il 1860 e il 1880.
La predilezione di Verdi per il baritono esplode senza ritegno nelle due ultime opere.
Tra un beota (Otello) e un'oca (Desdemona), Jago, unico barlume d'intelligenza nel pasticcio combinato da Boito, giganteggia perché elegante, sofista, dialettico. È lui il protagonista e la prova provata (anticipata d'altronde da certe lettere di Verdi) l'hanno fornita Renato Bruson e Riccardo Muti in un recente Otello fiorentino. Bruson è il primo, autentico e completo Jago da me visto e ascoltato. Più completo perfino di Warren, che pure, in tempo di muggiti, di cachinni, di urla becere e di «quel fazzoletto io vidi in man di Cassio» strepitato, aveva ben capito come la cosa funzionasse. E infatti il pubblico scaligero degli anni Cinquanta restò di gelo.
Il peggior pubblico di tutta la storia dell'opera, specializzato nell'esaltazione di magliari della vocalità. Ma non solo quello della Scala.
Ho udito, recentemente, la registrazione d'un concerto tenuto, non so se a Roma o a Torino, nel 1954, da Gigli e dalla Callas. Per Gigli, ormai esausto, che sbraita in modo indegno l'Improvviso dello Chénier, urla frenetiche; per la Callas, che esegue la grande aria di Costanza del Ratto dal serraglio con l'impeto drammatico e la coloratura serrata e mordente che il vero Mozart richiede (e il vero Mozart non è quello delle subrettine inglesi e tedesche) applausi tutt'al più cordiali.
Iago è tutto un gioco di colori tenui e sfumati, di accenti sottili, di allusioni. Fa storia a sé, nella genealogia del baritono verdiano. Canta su un doppio registro, giacché spesso tenoreggia, e non è, naturalmente, né grandioso, né patetico, ma «loico» [ndr: loico=chi si dedica allo studio della logica, ragionatore acuto]. Come lo è, a suo modo Falstaff, al quale Verdi diede anche qualche gradazione del basso, in aggiunta a una base baritonale e a vezzeggiamenti tenorili. E fu, come Iago, una parte scritta ad personam. Verdi aveva trovato in Victor Maurel un cantante che parlava alla sua fantasia. Non furono molti i cantanti capaci di parlare alla fantasia di Verdi: il tenore Fraschini, la Patti, la Stoltz e Maurel nel senso più ampio della parola; la Frezzolini, la Cruvelli, la Lynd, la Barbieri-Nini, la Waldmann, il baritono Coletti e fors'anche il baritono De Bassini in un senso più contingente e transitorio. Tutto qui, dall'Oberto di San Bonifacio al Falstaff.
§§§
Ed ora una coda per una questione sollevata da Paolo Cavalli di Parma a proposito delle affermazioni di un altro lettore, l'ingegner Rochi di Salerno. Sono due giovani colti, studiosi, che amano spingere le loro ricerche al di là dei confini veri e propri del melodramma; e Cavalli, in aggiunta, è musicista praticante e laureando in storia della musica. Ronchi ha compreso (ma vorrei che lo comprendessero anche altri) che per avere una giusta idea di quelle che sono state le più autentiche voci verdiane maschili, ci si deve rivolgere quasi esclusivamente (non così per le voci femminili) ai dischi a 78 giri del primo trentennio del nostro secolo. Quando udì per la prima volta i dischi di Pasquale Amato, mi scrisse - e io pubblicai una parte della sua lettera - che per lui questo baritono era stato una rivelazione. Aggiunse che quando io parlavo di Renato Bruson come interprete verdiano, eccedevo in lodi, trattandosi, sì, del maggior baritono di oggi, ma, in definitiva d'un cantante molto meno attrezzato di Amato in fatto di fantasia interpretativa e qualità di suono. Mi scrisse allora Cavalli, elencando le parti verdiane, in primis Simon Boccanegra. in cui Bruson è, a suo avviso, interprete e cantante completo.C'è da premettere che né Ronchi, né Cavalli, né io abbiamo ascoltato Amato dal vivo. Ci basiamo, dunque, su dischi che, tra l'altro, raramente offrono confronti diretti con le parti verdiane in cui Bruson eccelle: Simon Boccanegra, Macbeth e ora, anche Jago. A me sembra che nel Verdi più tradizionale (Rigoletto, Forza del destino, Trovatore, Ballo in maschera) i dischi di Amato lasciano udire un'estensione, una timbratura, uno squillo, una facilità e anche un'aggressività e imponenza d'accento che a Bruson mancano. Anche la varietà dei colori e l'uso delle mezzevoci sembrano favorire Amato, che, in definitiva, è completo sul piano sia dello stile patetico, sia dello stile grandioso. Ma è soprattutto questione di superiorità tecnica. Sembrerà strano, ma centi punti deboli di Bruson non dipendono da limitazioni congenite, ma da un passaggio di registro ritardato e incompleto (la voce che tende a sbiancarsi e a stimbrarsi in certi acuti, il gioco delle mezzevoci meno sicuro in zona alta e simili).
Detto questo, è chiaro che nello stile grandioso da spiegare sulle alte tessiture, Bruson deve difendersi, anche se lo fa con intelligenza, finezza e musicalità. Ma ha un timbro d'una melodiosità, d'un calore, d'una nobiltà, d'un velluto affascinanti; e una suggestione, nel genere patetico, alla quale è difficile resistere.
Senza contare il gusto severo e, nei confronti di Amato, ben più aggiornato. Poi c'è l'attore. Bruson è un vero attore-cantante. Dicono le cronache che anche Amato lo era. Ma chi di noi l'ha visto recitare?
articolo di Rodolfo Celletti credo fine anni 1980
1987 Dal settimanale OGGI un pungente articolo di Alberto Mandelli
OGGI 1987 maggio pg. 117
UN BALLO CON PASSI FALSI
Nonostante la voce di Pavarotti e la bacchetta di Gavazzeni, l'opera ha avuto momenti poco felici
UN BALLO IN MASCHERA di Giuseppe Verdi maggio 1987
Direttore Gianandrea Gavazzeni, con Luciano Pavarotti, Leo Nucci, Maria Parazzini, Èva Randava, Patrizia Pace, Silvestre Sammaritano, Giuncarlo Boldrini, Giovanni Gusmeroli, Regolo Romani. Regista Sandaro Sequi, scene e costumi di Giuseppe Crisolini Malalesta; maestro del coro Giulio Bertola. Milano, Teatro alla Scala.
RICCARDO E AMELIA : uciano Pavarotti e Maria Parazzini, ovvero Riccardo e Amelia, gli innamorati senza colpa di «Un ballo in maschera». Pavarotti è stato molto applaudito, per la Parazzini c'è stata qualche contestazione.
Bloccato dopo la prova generale al Comunale di Firenze l'altr'anno da un pervicace sciopero dell'orchestra, questo Ballo in maschera rilevato adesso dalla Scala era molto atteso, non soltanto per la deplorevole disavventura fiorentina, ma, soprattutto, dai fedeli del canto ansiosi di riascoltare Pavarotti, ben affiancato, pareva, da ormai famosi colleghi. C'era poi da verificare la nuova lettura di Gavazzeni, in costante evoluzione particolarmente per quest'opera.
Qualche anno fa, una Tetralogia, iniziata alla Scala ma lasciata a metà per dissensi sulla regia di Ronconi, era stata ripresa e completata proprio a Firenze; adesso, con questo Ballo, il viaggio dal Comunale alla Scala si ripercorreva a rovescio anche se con una sola opera di Verdi contro quattro di Wagner. L'edizione doveva risultare praticamente la stessa, e ci si attendeva un bel successo, ma all'ultimo momento, ammalatasi la Chiara, la sostituiva Maria Parazzini, di cui tutti ricordavamo, anni fa, la voce robusta e pastosa e il caldo temperamento. Anche il mezzosoprano Payne, indisposta, ha dovuto esser rimpiazzata da Èva Randova. Già questa non era sembrata un gran buon acquisto, poi è entrato in scena anche il soprano e nel buon rendimento atteso si sono infilate emissioni infelici, quasi che la cantante non avesse bene «in gola» la parte. Son risuonate pesanti proteste.
In casi simili, gli altri cantanti sono spesso indotti, più o meno consciamente, a cercar di «compensare», e rischiano, invece, di strafare, così perfino a Pavarotti, in bella forma e trionfatore della serata, è sfuggito qualche effetto discutibile. Una banale distrazione ha sciupato il clima emotivo del grande duetto, che aveva raggiunto un livello molto intenso. Nell'accesa passionalità di questa scena Gavazzeni sembra serrare ancor più il legame tra voci e orchestra, ed evocare figure sottintese dei personaggi, accanto a quelle reali dei cantanti, drammatizzando certe uscite strumentali (violoncelli, timpani).
Incredibile, poi, in un artista a suo tempo raffinato, il grottesco schifato accento di Nucci nel riconoscere la moglie, quasi si fosse trovato davanti un mucchio di sterco.
Il bilancio della serata, tra applausi e dissensi, premia, naturalmente, un Pavarotti di nuovo emergente, con la sua svettante pronuncia di parole e suoni (è raro che canti anche piano e, quando lo fa, non risulta al felice livello del resto). Molti consensi meritati anche alla fresca, insinuante Patrizia Pace, riuscito «paggio Oscar», parte difficile da calibrare.
In un clima guastato, è parsa peggiore anche la messinscena che già non è un capolavoro; sarebbe abbastanza innocua, a parte il cattivo gusto dei costumi nel «ballo» e la sciocca trovatina finale di far credere che tutto sia stato una finzione «d'epoca».
Morale: non bastano un grande tenore e una direzione intelligente a fare il «livello Scala»; soprattutto se il solito diavolo ci mette la coda.
Morale: non bastano un grande tenore e una direzione intelligente a fare il «livello Scala»; soprattutto se il solito diavolo ci mette la coda.
Alfredo Mandelli, critico e musicologo
SCOMPARE ESPERTO DI PUCCINI - dicembre 2013
Il mondo della lirica piange Mandelli
TORRE DEL LAGO.
Il triste annuncio è arrivato in mattinata da Simonetta Puccini.
All’età di 89 anni è scomparso, a Milano, il critico e musicologo Alfredo Mandelli.
Una figura di primo piano nel mondo della musica, straordinario conoscitore di Giacomo Puccini di cui aveva studiato le opere, in particolare La Rondine. Il suo nome, tra le altre cose, è legato a una recente e interessantissima pubblicazione, “L’universo di Puccini da le Villi a Turandot” di Alberto Cantù che contiene un contributo del celebre musicologo e fu presentato a Torre del Lago nel 2008 proprio su iniziativa
della Fondazione Simonetta Puccini in collaborazione con l’Associazione Amici delle Case di Giacomo Puccini. Ma le pubblicazioni di Mandelli, che era anche docente al conservatorio di Padova, sono davvero moltissime e apprezzate dagli appassioanti di classica e lirica di tutto il mondo.
2017_11_11 Musica al Tempio Valdese di Milano recital painoforte
Tempio Valdese di Milano
via F. Sforza 12/a. MM1 S.Babila - Duomo
Musica al Tempio 2017/2018
info: www.musicaaltempio.it
L’ingresso è come sempre libero con libera offerta per sostenere l’attività di Musica al Tempio in favore della musica e dei musicisti.
Sabato 11 Novembre 2017_11_11
Recital pianistico
Maria Grazia Bellocchio
PROGRAMMA:
Gyorgy Kurtag
Perpetuum mobile
…eine Blume für Ulrike Schuster…
Play with Infinity
Pen Frawing, Valediction to Erzsébet Schaàr
Fifths
Fancifully
quiet talk with the devil
Hommage a Domenico Scarlatti
Domenico Scarlatti
Sonata K32
Gyorgy Kurtag
(Adoration, adoration, accursed desolation)
Bells for Margit Mandy
Bell-fanfare for Sandor Veress
Flowers we are
Grassblades in memory of Klara Martyn
Hommage a Borsody Laszlo (Harmonica)
Hommage a Schubert
Franz Schubert
Melodia ungherese D812
Gyorgy Kurtag
In memoriam Gyorgy Szoltsanyi
Shadow-play
Hommage a Ranki Gyorgy
Waltz (Hommage à Sostakovitch)
Dmitri Sostakovich
Preludio in do diesis minore op. 34
Gyorgy Kurtag
In dark days - for Ferenc Farkas
Hommage a Berenyi Ferenc 70
Ligatura for Ligeti
Hommage a Ciaikovsky
Piotr Ilic Ciaikovsky
Ottobre
Gyorgy Kurtag
Antiphony in f-sharp
Obstinate A flat
Doina
Fanfare an Judit Maros' wedding
Les Adieux (in Janaceks Manier)
Leos Janacek
They Chattered Like Swallows
Gyorgy Kurtag
Reticent Question
Walz
Ligatura x
Hommage à J. S. B.
Ligatura y
Johann Sebastian Bach
Sarabanda dalla Suite francese n.1
Maria Grazia Bellocchio - pianoforte
via F. Sforza 12/a. MM1 S.Babila - Duomo
Musica al Tempio 2017/2018
info: www.musicaaltempio.it
L’ingresso è come sempre libero con libera offerta per sostenere l’attività di Musica al Tempio in favore della musica e dei musicisti.
Sabato 11 Novembre 2017_11_11
Recital pianistico
Maria Grazia Bellocchio
PROGRAMMA:
Gyorgy Kurtag
Perpetuum mobile
…eine Blume für Ulrike Schuster…
Play with Infinity
Pen Frawing, Valediction to Erzsébet Schaàr
Fifths
Fancifully
quiet talk with the devil
Hommage a Domenico Scarlatti
Domenico Scarlatti
Sonata K32
Gyorgy Kurtag
(Adoration, adoration, accursed desolation)
Bells for Margit Mandy
Bell-fanfare for Sandor Veress
Flowers we are
Grassblades in memory of Klara Martyn
Hommage a Borsody Laszlo (Harmonica)
Hommage a Schubert
Franz Schubert
Melodia ungherese D812
Gyorgy Kurtag
In memoriam Gyorgy Szoltsanyi
Shadow-play
Hommage a Ranki Gyorgy
Waltz (Hommage à Sostakovitch)
Dmitri Sostakovich
Preludio in do diesis minore op. 34
Gyorgy Kurtag
In dark days - for Ferenc Farkas
Hommage a Berenyi Ferenc 70
Ligatura for Ligeti
Hommage a Ciaikovsky
Piotr Ilic Ciaikovsky
Ottobre
Gyorgy Kurtag
Antiphony in f-sharp
Obstinate A flat
Doina
Fanfare an Judit Maros' wedding
Les Adieux (in Janaceks Manier)
Leos Janacek
They Chattered Like Swallows
Gyorgy Kurtag
Reticent Question
Walz
Ligatura x
Hommage à J. S. B.
Ligatura y
Johann Sebastian Bach
Sarabanda dalla Suite francese n.1
Maria Grazia Bellocchio - pianoforte
2017_11_14 TieffeTeatro Milano MOBY DICK
STAGIONE 2017 | 2018
TieffeTeatro Milano
Stagione 48… il viaggio continua
@TieffeTeatro
CALENDARIO SPETTACOLI TEATRO MENOTTI
Via Ciro Menotti 11, Milano - tel. 02 36592544 - biglietteria@tieffeteatro.it
ORARI BIGLIETTERIA
Dal lunedì al sabato dalle ore 15.00 alle ore 19.00
domenica ore 14.30 | 16.30 solo nei giorni di spettacolo
Acquisti online con carta di credito su www.teatromenotti.org
ORARI SPETTACOLI
martedì, giovedì e venerdì ore 20.30
mercoledì e sabato ore 19.30 (eccetto le prime ore 20.30)
domenica ore 16.30
TieffeTeatro Milano
Stagione 48… il viaggio continua
@TieffeTeatro
CALENDARIO SPETTACOLI TEATRO MENOTTI
Via Ciro Menotti 11, Milano - tel. 02 36592544 - biglietteria@tieffeteatro.it
ORARI BIGLIETTERIA
Dal lunedì al sabato dalle ore 15.00 alle ore 19.00
domenica ore 14.30 | 16.30 solo nei giorni di spettacolo
Acquisti online con carta di credito su www.teatromenotti.org
ORARI SPETTACOLI
martedì, giovedì e venerdì ore 20.30
mercoledì e sabato ore 19.30 (eccetto le prime ore 20.30)
domenica ore 16.30
14 | 19 novembre
Pleiadi Art Productions, Campsirago Residenza
presentano
MOBY DICK
prima milanese
di Michele Losi, Mariasofia Alleva
regia Michele Losi | cura del movimento scenico Caterina Poggesi
con Mariasofia Alleva, Andrea Pietro Anselmi, Lucia Donadio, Carolina Leporatti,
Giovanni Serratore e in video Joseph Scicluna
musiche originali Cristina Abati, Chiara Codetta, Tobia Galimberti|
drammaturgia Riccardo Calabrò, Mariasofia Alleva, Michele Losi
scenografia Marialuisa Bafunno, Michele Losi, Anna Turina
costumi Stefania Coretti, Maria Barbara De Marco
sound design Diego Dioguardi | light design Andrea Violato | video Alberto Sansone
La scelta di avvicinarsi a un grande classico come Moby Dick rappresenta la sfida di affrontare il mare aperto dell’esistenza. Saliamo a bordo della baleniera Pequod con Ismaele, Queequeg e l’equipaggio per uno spettacolo di parole, suoni, gesti e attese. In scena una grande assenza, quella del Capitano Achab e una grande attesa, quella della balena bianca.
L’adattamento drammaturgico è fedele alla trama del romanzo, scegliendo di far emergere le tensioni esistenziali dei personaggi. Si compone un Moby Dick nel quale l’alternanza tra profondità individuale e azione collettiva definisce il ritmo e la forma dello spettacolo, lasciando spazio anche a momenti ironici e comici.
Ismaele si muove tra le angosce e le elucubrazioni dei personaggi minori creati da Melville, riuniti sul pontile della baleniera, in uno spazio drammaturgico simbolico e metafisico. Uno spazio giocato tra un presente e un immaginario, in cui gli elementi cardine del romanzo - il mare, la balena bianca e lo stesso Achab - non si manifestano, ma la loro presenza (o assenza?) permea ogni dialogo e azione.
È il linguaggio evocativo che porta in scena il mare, grazie a un impianto scenico di forte impatto visivo esaltato da un potente soundscape teatrale. Il paesaggio sonoro in cui si muove la balena bianca nasce dalla rielaborazione in chiave elettronica di suoni di strumenti della tradizione occidentale e orientale (dal violoncello ai tamburi Taiko) quasi a rievocare il Pequod, nave americana con forti alberi di legno giapponese.
E su quel pontile, dove tutto ha inizio e fine, le partiture fisiche corali raccontano la vita quotidiana a bordo, le ripetitive e cicliche azioni che intervallano la grande attesa, la vera protagonista di questa rilettura del romanzo di Melville.
1984_06_22 Mario Mainino parla di Aida a Palazzo Crespi
Dall'Archivio di CONCERTODAUTUNNO, ecco la dispensa di una conferenza ascolto tenuta da Mario Mainino con la partecipazione di Giuseppe Franzoso per gli Amici di Palazzo Crespi - Vigevano.
COMUNE DI VIGEVANO
MUSEI
PINACOTECA
BIBLIOTECA
organizzano “IL VENERDI’”
Venerdì 22 giugno 1984
Palazzo Crespi Vigevano Sala Garberini – ore 21:00
Introduzione a
Giuseppe Verdi AIDA
a cura di
MARIO MAININO e
GIUSEPPE FRANZOSO
INGRESSO LIBERO
COMUNE DI VIGEVANO
MUSEI
PINACOTECA
BIBLIOTECA
organizzano “IL VENERDI’”
Venerdì 22 giugno 1984
Palazzo Crespi Vigevano Sala Garberini – ore 21:00
Introduzione a
Giuseppe Verdi AIDA
a cura di
MARIO MAININO e
GIUSEPPE FRANZOSO
INGRESSO LIBERO
Che cosa è Aida?
E'
un'opera lirica, cioè
una forma di teatro con musica, e sottolineo teatro,
cioè l'unione della parola e della musica, del significato e
dell'espressione di questo (o anche di un significato contrastante)
attraverso il suono che viene legato a queste parole.
Questo
lavoro giunge ad un punto di grande maturità artistica di Verdi, un
autore che fu sempre molto attento all'aspetto teatrale dei suoi
lavori, producendo in ogni lavoro un aggiornamento delle sue
posizioni precedenti, acquisendo moduli
nuovi
e
sfidando
le forrme prestabilite; Aida nasce nel 1870, a due opere dal termine
della produzione verdiana, non ci dobbiamo perciò stupire di trovare
già nelle prime battute del breve preludio iniziale quello che sarà
il clima dell'opera, cioè lo scontro fra la dimensione intima del
dramma, dei sentimenti che agitano i vari personaggi e la nuova
pompa, la magnificenza nella quale sono quasi costretti a muoversi,
gli strazi di Amneris che cerca invano di conquistare con il "potere
o con la preghiera” l'amore di Radames, incrinano la sua potenza,
(come
figlia del Faraone spettava a lei di tramandare la successione che
per gli Egizi si tramandava attraverso l'erede femminile) rendendola
più
umana delle stesso padre di Aida, che non esita a sconvolgere la
figlia pur di ottenerne l'aiuto, per scoprire la via d'accesso sicura
per sorprendere le truppe egizie.
Rimane
la "celeste figura" di Aida, unica coerente con se stessa
anche nei suoi contrastati affetti tra il padre e l'amante, e Radames
che vacilla non appena i suoi slanci di amore o di pietà vengono
messi alla prova.
Chi
compose l'opera?
Quando
Giuseppe Verdi affronta questo soggetto a 57 anni, è
il più famoso compositore italiano vivente, anche se si trova in
periodo meno fecondo di nuove composizioni è pur sempre chiamato in
campo sia da coloro che si ispirano ai suoi lavori sia a coloro che
cercano di discostarsene per affrontare il presunto genere moderno,
il futuro "verismo" che sta per affacciarsi all'orizzonte,
e il "vagnerismo" che da oltralpe affascina i giovani
compositori, pronti a cadere più facilmente in una sterile
imitazione che non a cercare autonomamente nuove vie italiane.
Il
soggetto sarà elaborato come sceneggiatura da Camille Du Loclè,
prima ancora di passare per la verseggiatura al Ghislanzoni,
basandosi su di un racconto del celebre egittologo Auguste Mariette,
che era tra l'altro il consigliere di Ismail Pascià, Kedive
d'Egitto.
Questo
lavoro, che frutterà a Verdi ben 150.000 franchi, deve
servire all'inaugurazione del nuovo teatro d'opera del Cairo, in
occasione dell'altra inaugurazione, quella del Canale di Suez, cosa
che avverrà il 24 dicembre l871.
La
trama:
Lontana
dal clima borghese della "Traviata" e dal clima epico del
"Trovatore" come pure dallo splendore coreutico del
"Nabucco" o dalla introspezione del "Rigoletto",
Aida sembra piuttosto racchiudere tutti questi aspetti in un grande
affresco mitologico, deve il "particolare" risalta sulle
"sfondo", ricco di clangori. L'Egitto dei Faraoni, in
guerra contro gli invasori etiopi, è
rappresentato petente e oppressore mentre in realtà è l'attaccato,
è il popolo che si difende nella propria patria, ed è agli invasori
che appartiene la schiava Aida, per la quale sembra che il padre
Amonasro, Re degli Etiopi, abbia scatenato l'attacco, ma il pretesto
della liberazione della figlia lascerà scopertamente il posto alla
brama di possesso, quando il padre cercherà in ogni modo di renderla
spia per il "suo popolo", e traditrice della fiducia
dell'uomo da lei amato.
L'opera
si apre con Radames e il gran sacerdote Ramfis, che parlano tra loro,
entrando in questo discorso quasi come un ascoltatore che si avvicina
indiscreto e rinunciando subito al classico coro di apertura, ogni
pagina che incontriamo è
vitale alla narrazione, non è possibile sopprimere nemmeno il
racconto del messaggero o le danze degli schiavi nella scena di
Amneris, senza turbare l'equilibrio globale della composizione, mai
come in questo lavoro è appropriato indicarne come la protagonista
assoluta AIDA, infatti sembrano convergere su di lei le mire di
ognuno ed in ogni caso a suo danno, anche l'amore di Radames riesce
fatale suscitando la gelosia di Amneris.
Emblema
di vittima, Aida, principessa etiope, cade schiava degli Egiziani,
come schiava si innamora di un guerriero che la sua condizione le
rende addirittura inavvicinabile, come figlia è oppressa dal padre,
non le rimane nemmeno il conforto dei propri sentimenti che deve
dividere in modo contrastante tra il padre e l'amante “Ritorna
vincitor” (atto 1°); la patria, non è più quella risorgimentale
da liberare o da unificare, è irrimediabilmente perduta "O
patria mia quanto mi costi" (atto 111°), questa patria che
invano desidera rivedere Aida, e che Radames nel suo sogno ad occhi
aperti del primo atto voleva ridonarle "Il tuo bel cielo vorrei
ridarti" è il mitico paese dove si può essere felici, dal
quale Aida è stata violentemente strappata, "Sogno di gaudio
che in dolor svanì" così dirà ancora prima di morire, un
sogno di felicità che non si è realizzato né nello spazio né nel
tempo e che si spegne con lo della vita.
Giuseppe
Verdi &
Antonio
Ghislanzoni
AIDA
ATTO
1°
-
Preludio
-
Duetto Ramfis, RadaMies
-
Radames solo "Se quel guerrier io fossi..."
-
Terzetto Amneris, RadaMes,
AiDa
-
Ingresso del Re e arrivo del messaggero
-
Radames viene nominato condottiero supremo "Or di Vulcano..."
-
Aida sola "Ritorna vincitor..."
-
Nel tempio di Vulcano a Menfi,
coro
dei sacerdoti e delle sacerdotesse, danze sacre, vestizione di
Radames.
-
Appartamenti di Amneris, canto delle schiave, danze dei moretti.
-
Ingresso di Aida, duetto con Armeris "Si ... tu l'arni..."
-
All'ingresso della città
di Tebe, rientro trionfale di Radames dopo la vittoria sugli Etiopi.
-
Invano Radames chiede la libertà
per i prigionieri
-
Aida riconosce il padre Amonasro "Questa assisa ch'io
vesto..."
-
Il Faraone concede a Radames la mano di Amneris "Sovra l'Egitto
un giorno, con essa regnerai..."
ATTO
3°
-
Preludio, la notte in riva al Nilo
-
Amneris si reca al tempio a pregare con Ramfis
-
Aida sola, attende l'arrivo di Radames, e viene presa dalla
struggente nostalgia della sua patria "O cieli azzurri ..."
-
Giunge Amonasro che cerca, di convincere la figlia a scoprire da
Radames "qual sentier il nemico seguirà"
al suo rifiuto le inveisce contro "Su, dunque! Sorgete egizie
coorti…" evocando lo spirito della madre che la maledice
-
Arrivo di Radames, duetto con Aida, stretta "Si fuggiamo..."
-
Radames rivela il percorso segreto "...le gole di Napata..."
-
Amneris esce improvvisamente dal tempio e lo scopre con la rivale,
Radames trattiene le guardie per far fuggire Aida ed il padre e si
consegna al gran sacerdote.
ATTO
4°
-
Amneris sola, disperata, dopo avere consegnato Radames ai sacerdoti,
tenta ora invano di salvarlo "Già
i sacerdoti adunansi..."
-
Radames apprende da Amneris che Amonasro è
stato catturato ed ucciso, mentre di Aida non si è trovata traccia,
si sottopone al processo senza tentare nessuna discolpa
-
I sacerdoti condannano Radames alla sepoltura da vivo sotto "l'ara
del Dio", Amneris lancia l'anatema a Ramfis "Sacerdote:
quest'uomo che uccidi, tu lo sai... da me un giorno fu amato..."
-
Mentre Amneris invoca la Pace, nella sottostante tomba Radames trova
Aida, stremata, che le attende ed insieme si staccano dalla vita "O
terra, addio; addio, valle di pianti…"
DICONO
DI AIDA
DALLE
LETTERE DI GIUSEPPE VERDI;
So
ben ch'ella mi dirà,
e il verso, la rima, la strofa? Non so che dire; ma quando l'azione
lo richiede abbandonerei subito ritmo, rima, strofa; farei dei versi
sciolti per poter dire chiaro e netto quello che l'azione esige?
Purtroppo
per il teatro è necessario - che poeti e compositori abbiano il
talento di non fare né musica né poesia. (17 agosto 1870) "...
non far caballette! Io sono sempre d'opinione che le cabalette
bisogna farle quando la situazione lo domanda... specialmente
nel duetto padre figlia mi pare fuori posto, Aida in quello stato di
spavento e di abbattimento non può né deve cantare una cabaletta."
Gustavo
Marchesi:
Dramma
a sfondo pseudostorico... Egitto oleografico, ieratico e sacrale, che
fornisce il pretesto per un trionfale peana della civiltà
mediterranea, quella italica in particolare, quasi da opporre
all'eroismo nordico wagneriano...
Aida possiede un tessuto musicale di tale scioltezza e purezza che
non varca mai lo spessore di un mezzorilievo...
non esistono orge né sacrifici di sangue ma piuttosto una
monumentale e spesso fredda energia di repressione... il canto
degli egizii, di Amneris è tortuoso, malvagio,
soffocato da necessità cerimoniali, subdolo, invece quando
canta Aida sembra di scorgere alle sue spalle il movimento cullante
della natura e la dolce carnalità degli abitanti, foreste molli e
scure.
Verdi accetta la fiaba come prodotto popolare proprio con i suoi
limiti, senza cadere in una netta suddivisione del bene e del male,
l'Egitto progredito e leale di Radames ha pure prodotto la casta dei
Sacerdoti e la contraddittoria Amneris, l'Etiopia, arretrata e
violenta, ha prodotto l'essere più puro e gentile cella vicenda,
Aida, ma anche il cruento Amonasro.
L'intolleranza,
la negazione della libertà, operati verso Aida, sia nella scena
della gelosia
da
Amneris, forte del suo potere, sia dal padre Amonasro, sadico e
torturatore suscitatore di visioni animistiche terrorizzanti,
rivelano il significato della fiaba: rivelazione di una mentalità
superstiziosa, impossibilitata a risolvere i problemi che la
circondane.
Palmiro
Pinagli:
...
all'Aida si torna, si dovrà
tornare, come ad un'opera che si ripropone continuan.ente
all'attenzione con una sua forza a volte tanto più inquietante
quanto più complesse appare il giudizio... il mondo affettivo del
maestro si è ancora arricchito, si è fatto più vario e complesso:
basterà ripensare all'introduzione dell'atto terzo, a quel tanto di
misterioso che la caratterizza, in un atmosfera sempre
drammaticamente tesa, ma più rarefatta, in cui senza nessuna
concessione è evidente che non è rimasto del tutto insensibile a
quel mutamento di gusto che veniva maturando.
Le
novità strutturali di Aida si presentano subito evidentissime,
l'opera
è caratterizzata da una larga presenza di scene di massa, cori e
balletti, che non hanno nulla a che fare con il dramma intimo dei
personaggi principali,
però se in casi precedenti il problema del balletto era stato
affrontato con fastidio e con scarsi risultati, per Aida non è così,
se nelle altre opere si possono tranquillamente sopprimere, in questo
caso sono parte indispensabile allo equilibrio, alla dinamica dello
spartito e sono quindi drammaticamente-musicalmente non più
eliminabili. In queste scene le vicende dei protagonisti si
arrestano, ma il dramma vero, continua caratterizzato da una
situazione musicale sempre chiarissima. Lo sfondo prende un rilievo
insolito, si mescola con le vicende dei personaggi, si pone accanto a
quelle come più ampio riscontro, orizzonte di vicende più grandi,
di più generali passioni, perseguendo quella fusione tra i piani
diversi, che era rimasta sino ad allora ancora solo intenzionale.
Le
conclusioni a cui giungono i protagonisti nel finale dell'opera,
riassumono non solo la loro esperienza, ma l'esperienza ancora di
tutta quella più
vasta
umanità;
lieta o dolente, vinta o vittoriosa, e ne svuotano amaramente ogni
illusione. Può darsi, in effetti, che Verdi avesse in mente di
scrivere un supremo poema d'amore, il canto dell'amore che vince ogni
passione e va oltre la morte oppure pensasse di cantare il
superamento, attraverso la morte, di ogni umano dolore; certo è
che
traspare il dolce assopimento della morte, quando ogni dolore si
calma, si acquieta, come l'invocazione alla pace di Amneris sul lento
digradare dell'orchestra, sempre più piano senza altri commenti.
Edoardo
Pellegrini:
Rispetto
ai precedenti schemi verdiani, che vedevano un'assoluta preponderanza
dell'elemento vocale, l'Aida rappresentò
una svolta, perché l'uso dell'orchestra divenne molto più incisivo
e determinante, non siamo più a quella volgarità (sic!!!) degli
accompagnamenti, ma a un'opera tutta solare e italiana.
Guido
Salvetti:
La
scelta di Verdi sembra puntare più
a una varia alternanza che ad una sintesi tra l'aspetto spettacolare
e quello drammatico-psicologico, le scene di massa raggiungono un
effettismo che sconfina nell'art-pompier con la celebre marcia
trionfale. L'opera si conclude, con la scelta antispettacolare
dell'epilogo tragico, Aida e Radames muoiono sepolti vivi nella
prigione, in uno struggente declino di vitalità, gli ultimi due
atti, privi di pezzi chiusi, segnano l'approdo a una concezione più
intellettuale e colta del teatro musicale.
Carlo
Majer:
In
genere Aida è
soprattutto "l'opera
con gli elefanti".
una specie di maxicirco musicale dove tutto prende l'aria del
"numero". Ecco a voi i negretti ammaestrati della
principessa Armeris, dall'Etiopia i terribili guerrieri di Amonasro,
un attimo di silenzio, prego: il tenore Radames si accinge ad
affrontare un triplo Si bemolle acuto, e via di seguito.
Con
questo non si vuole deridere una ignoranza o un'ingenuità popolare,
dato che illustri personaggi della nostra cultura la eseguirebbero
non sole sotto le piramidi, e non solo con gli elefanti ma anche con
i cammelli, i leoni, le sfingi, gli struzzi e i coccodrilli.
In
realtà per comprendere la "varietà drammatica" di Aida è
utile
dimenticare tutto questo, e ascoltare le visioni di Verdi
come
se si fossero appena condensate sulla partitura, il grande
"ba-taclan", come la chiamava Verdi, delle scene trionfali,
non ha altro scopo che quello di disegnare uno spazio scenico
infinito e monumentale,
dentro il quale i personaggi, persino Amneris, si aggireranno soli
con i loro sentimenti, schiacciati e incapaci di raggiungere gli
altri, condannati a sentire l'eco dei loro lamenti perdersi nelle
immense sale. Quando Radames finisce di cantare la sua prima aria
"Celeste Aida" e ascende
sino al Si bemolle acuto, Verdi precisa MORENDO,
spenta la sua voce l'orchestra sembra farne circolare l'eco e
farne
arrivare già
l'ultima vibrazione al sotterraneo dove Radames e Aida moriranno.
Aida
è un'opera carica di nostalgie e di lontananze,
che non vengono distrutte dal soprano grasso oltremodo; come per
qualsiasi arte anche l'opera ha le sue convenzioni, e chi l'ama le
conosce e le rispetta, e sa benissimo come un soprano grasso possa
tratteggiare un'Aida, magra, con tutte le curve a posto, ma se ha la
voce di una sega elettrica, Aida non lo è né lo sarà mai, sa anche
che un acuto di per sé, non dice nulla, deve uscirne la sua
malinconia, i suoi brividi d'amore, la sua nostalgia.
Massimo
Mila:
Nonostante
la sua enorme popolarità,
Aida è un'opera che si interroga ancora, e ad ogni ripresa ci si va
con l'animo aperto alla possibilità di verificare le proprie
opinioni, scenografi e registi faticano a trovare uno stile
contemporaneo per la parte spettacolare e decorativa di Aida, che
trasforma i due fìnaloni del primo e del secondo atto in una parata
di gigantesco
teatro dei burattini.
A
percorrere le spartito, si incontra quasi una contro -Aida, nella
quale recedono in ombra i passi che in teatro scatenano il plauso più
rumoroso, ed emergono
invece tratti di consapevole maturità drammatica, ai quali poche
esecuzioni rendono giustizia.
Qui è da notare un
particolare di tale finezza drammatica e psicologica,
che è difficile rilevarlo nella esteriore evidenza della
rappresentazione, si
tratta dell'anticipo del tema musicale rispetto alla situazione,
quello della gelosia di Amneris appare in orchestra quando ella non è
ancora gelosa, ma Radames suppone che lo sia, è l'inizio di quella
serie di equivoci che finirà per rivelare l'amore di Aida e Radames,
quando arriva Aida, comincia quel gioco, in cui è la musica che
eccelle, di una persona che parla fingendo un sentimento, mentre
tutt'altro ne ha in cuore, il tema esotico di Aida ha un suo modo di
sbucare in ogni pausa del canto, occupando ogni vuoto, come l'aria:
finisce
così
per assumere una funzione paesistica di sfondo ambientale. Con
l'ultima scena dell'opera, Verdi ha tentato un colpo grosso: la
redenzione del dramma nella catarsi,
la sublimazione degli affetti umani, il superamento dejli affanni in
questa terra in seno alla morte liberatrice, singolare paradosso di
quest'opera troppo amata e troppo disprezzata
per la sua esteriorità spettacolosa,
e ricca
poi di particolari d'una tale finezza, che solo ad un'attento esame
della partitura si rivelano pienamente.
Elenco
dei brani proposti all'ascolto:
Preludio,
duetto Ramfis-Radames; Cristoff/Bioerling Perlea
Se
quel guerrier io fossi; F.Corelli
Terzetto
Amneris-Aida-Radames; Barbieri/Bioerling/Milanov Perlea
Messaggero;
Mario Carlin
Ritorna
vincitor; Z.Milanov
Duetto
Aida-Amneris atto II; Barbieri/Milanov
Gloria
all'Egitto; Callas,Del Monaco, De frabriitis Messico 3/07/1951
Preludio
atto III Perlea
Cieli
azzurri Leyla Gencer (56) A. Basile
Su
dunque sorgete egizie coorti; Leonard Warren
Sacerdote,
quest'uomo che uccidi F.Barbieri
O
terra addio; Kurt Baum/Z.Milanov Fausto Cleva 20/06/1954
Della
Aida a Verona nel 1913, che fu diretta da Tullio Serafin, ed
interpretata dal tenore G.Zenatello che fu l'ispiratore della
iniziativa, si occuparono 68 testate giornalistiche italiane e
straniere, ricordando la magnificenza dell 'allestimento, ispirato
alle idee di Mariette, il superbo ingresso di Radames su di una
portantina retta da dodici schiavi e quello del Re su una carro
tirato da quattro cavalli. Queast'anno -1984 - nella ripresa di questo stesso
allestimento scenografico canteranno:
Aida
Maria Chiara
Amneris
Fiorenza Oossotto
Radames
Nicola Martinucci
Amonasro
Giampiero Mastromei
dirige
Peter Maag
Conclusione
riservata a Renè Leibovitz
“se
i frequentatori dei concerti sinfonici manifestano verso la musica di
Verdi un vero disprezzo, ancor più strano e sconfortante è
l’atteggiamento dei musicisti di professione.
Per
lunghi anni la sua musica ( di Verdi ) non fu presa sul serio dalla
maggior parte dei compositori e dei professionisti a detrimento di
una vera comprensione che dovrebbe mirare a cogliere l’unità
profonda e insieme il progresso di una delle più grandi coscienze
creatrici che si conoscano.”
Ndr.
Nello stesso anno di Aida, Verdi, partecipò ad una commissione di
studio per la riforma dei Conservatori, anche se a malavoglia, e si
pronunciò contro l’assurdo dei moderni onde evitare qualsiasi
imitazione. Propose scuole serali gratuite per insegnare il canto
corale.