1987 Rodolfo Celletti e la voce di baritono, lo stile è precluso a chi manca di tecnica e l'interpretazione a chi manca di stile.

Dall'archivio di CONCERTODAUTUNNO, rendiamo disponibile un saggio illuminante sulla voce di "baritono" che fu pubblicato alla fine degli anni '80 e che purtroppo mi pare non sia disponibile in rete. Da questo saggio avevo a suo tempo raccolto l'indicazione che cerco di trasmettere nelle mie presentazioni o guide all'ascolto e conferenze sulla lirica sulla vocalità baritonale che è assolutamente la mia preferita.
La pubblicazione di questo articolo è fatta a favore di quanti non possono fruirne attraverso le pubblicazioni ufficiali e non ha fini di lucro. Non riesco, dalle fotocopie , ad individuare la testata per la quale fu a quel tempo scritto e pubblicato. Qualora vengano violati i diritti di qualcuno basta avvisare e sarà eliminato.
Dolente, sdegnato solenne, cantò
Il baritono verdiano e i suoi molteplici ruoli.
di Rodolfo Celletti
La richiesta di parlare del baritono verdiano mi fu rivolta dall'Ing. Ronchi di Salerno in una lettera che, inorridisco nel constatarlo, porta la data del 15 novembre 1978. Da allora l'ing. Ronchi è diventato per me una specie di «amico di penna», come si dice fra coloro che di tanto in tanto si scrivono senza conoscersi personalmente. È uno dei lettori, fra l'altro, che di quando in quando riforniscono la cartella «Ire, sdegni e sfoghi» e gli debbo questo tributo.
Ma sono poi intervenuti altri lettori. Per esempio. Paolo Cavalli di Parma che, per inciso, vorrebbe confutare (ma parzialmente) proprio un giudizio limitativo che a suo tempo l'ing. Ronchi diede di Renato Bruson e che io riportai. Ne riparleremo. Ancor più recentemente, mi ha sollecitato a tracciare la storia del baritono verdiano anche Fabio Poggi, di Asti, con una lettera da «Ire, sdegni e sfoghi» («more solito») che si riferisce, in particolare, a certe esecuzioni torinesi. Ed eccomi qui. Ma l'argomento è quello che è: lungo, oltre che complesso quindi questa specie di saggio lo suddividerò in due parti: dal Nabucco alla Luisa Miller e dalla «Trilogia» al Falstaff.

DAL NABUCCO A LUISA MILLER
Non è possibile dare una definizione univoca del ruolo e della posizione del baritono nell'operismo verdiano. Questo vale già per i primi lavori. Si sa che, nel melodramma romantico, la funzione prevalente del baritono è quella di antagonista del tenore, per ragioni che vanno dalla rivalità in amore a contrasti politici e a faide familiari. Appunto come antagonista, il baritono ordisce intrighi e trame delittuose che, con il tenore, colpiscono quasi sempre anche il soprano. Per ciò stesso, il baritono appare come la longa manus del male nel conflitto romantico tra la malvagità e i personaggi che simboleggiano il bene. Questa però è una definizione schematica e largamente incompleta. Già in Bellini e in Donizetti, infatti, il baritono può avere altri lineamenti e configurare personaggi generosi e cavaliereschi, quando addirittura non incarna figure eroiche o di grande levatura morale e artistica, come Belisario e Torquato Tasso in Donizetti. Sempre in Donizetti, il baritono può fungere da amoroso: o tanto sventurato da impazzirne (come Cardenio del Furioso) o fortunato, come Don Pedro della Maria Padilla, in cui, tra l'altro, il tenore è relegato in una parte di padre.
Questo quadro ampio e vario di attribuzioni, diviene ancor più complesso con Verdi, il quale, fra l'altro, finì per attribuire al baritono anche caratteristiche di timbro, di colore, d'estensione e di tessitura che ne fecero un registro vocale per vari aspetti nuovo. Su questa strada, è bene precisarlo. Verdi si mantenne piuttosto distante da Bellini e dal primo Donizetti. mentre con l'ultimo Donizetti il rapporto fu non soltanto più stretto, ma duplice. Donizetti precorse Verdi sia nella complessità psicologico-vocale di certe parti baritonali (appunto Cardenio, Belisario, Torquato Tasso), sia in certe caratteristiche di scrittura, ma ad un certo punto il giovane Verdi gli si affiancò e, sia pure per un breve tratto, lo precedette, suggerendogli, tramite l'impiego che fece di Giorgio Ronconi nel Nabucco, qualche connotato del Duca di Chevreuse della Maria di Rohan.
Ma, sempre a proposito di Donizetti, non dobbiamo dimenticare che fu lui a codificare, nella Linda di Chamounix. l'attribuzione al baritono di quelle parti di padre «nobile» (anche se di umile condizione) che Verdi fece poi proprie nella Giovanna d'Arco, come primo tentativo, quindi nella Luisa Miller e nel Rigoletto.
A questo punto, per rendere più accessibili certe vicende della voce baritonale, ricorderò che nel melodramma italiano serio del Sei/Settecento questo registro non esisteva. O meglio, esisteva sotto altre denominazioni.
Le voci maschili del nostro operismo furono, fino a Rossini, sol tanto due: tenore e basso.
Ma il tenore era baritonaleggiante come timbro e colore ed esplicava le funzioni del baritono anche come ruoli. Era infatti antagonista - spesso con i tratti del personaggio «vilain» protervo e brutale - oppure caratterista: confidente, amico, padre nobile. A loro volta i bassi potevano avere qualche carattere baritonale e fungere anch'essi da antagonisti o da caratteristi (con l'aggiunta, spesso, di parti da re o da sacerdote).
Quando però il tenore baritonale, causa la progressiva rarefazione dei castrati, cominciò a sostenere, in alternativa con il contralto «in travesti», parti di amoroso, si creò la necessità di sostituirlo nei ruoli di antagonista e di caratterista con una voce che se ne differenziasse timbricamente.
Comparve così il basso cantante, dotato d'una voce capace di sostenere tessiture più acute di quelle di solito scritte per il basso autentico.
Il basso cantante fu il più immediato precursore del baritono e forse qualcosa di più, se pensiamo che tutte le parti scritte da Bellini per basso cantante (e molte di quelle scritte da Donizetti) sono oggi cantate da baritoni. Donizetti scrisse su tessiture più acute di Bellini per le opere in cui potè disporre di Giorgio Ronconi (Furioso, Torquato Tasso e soprattutto. Maria di Rohan).
Ronconi, infatti, pur essendo anch'egli ufficialmente definito un basso cantante, vantava in realtà un registro acuto esteso e quasi tenoreggiante.
Fu il primo autentico baritono della storia dell'opera italiana e il suo tipo vocale finì per fare testo giacchè, nel frattempo, era nato e s'era imposto il tenore romantico chiaro e acuto varato da Bellini in Pirata, Sonnambula, Puritani. In definitiva, il fulcro della questione fu quello di tenere distinto, tramite il timbro e il colore, l'amoroso dall'antagonista. Quando il romanticismo introdusse un tenore chiaro che per il timbro stilizzato e il colore della voce poteva in qualche modo ricordare i castrati - e precipuamente i contraltisti - per differenziare l'antagonista bastò il timbro e il colore di Ronconi, che in sostanza altri non era che una reincarnazione del vecchio tenore baritonale del Sei/Settecento. Analogamente, quando il verismo concepì, tra la fine dell'Ottocento e i primi del nostro secolo, il tenore «centrale» alla Caruso o alla Zenatello, o i compositori introdussero tessiture baritonali più basse per differenziare l'antagonista dall'amoroso (si pensi a Rance della Fanciulla del West o allo stesso Scarpia) ovvero i baritoni provvidero motu proprio a pompane e a scurire i centri, con i noti risultati: voce forzata, indurita e accorciata non tanto in rapporto alle parti da eseguire nel repertorio verista, quanto a quelle verdiane.

Verdi partì, già con il Nabucco (scritto per Ronconi) da strutture prettamente baritonali, tramutando in regola fissa ciò che per Donizetti era stato un comportamento sporadico. Alcuni personaggi, è vero, come Giacomo della Giovanna d'Arco, Francesco Moor dei Masnadieri, Rolando della Battaglia di Legnano, Stankar dello Stiffelio hanno tessiture lievemente meno acute di quelle del baritono verdiano più tipico. Lo si deve al fatto che Filippo Coletti (il primo Francesco Moor) e Filippo Colini (il primo Giacomo, il primo Rolando. il primo Stankar) provenivano dalle file dei bassi cantanti donizettiani e ne conservavano qualche tratto. Ma è nel Nabucco, nell'Ernani, nei Due Foscari, nel Corsaro che Verdi da al baritono i tratti definitivi. E per inciso, il primo Doge dei Foscari e il primo Seid del Corsaro tu Achille De Bassini. tenoreggiante ancor più di Ronconi, tanto che aveva iniziato la carriera come tenore.
A questo punto, possiamo cominciare ad avere un'idea del capovolgimento operato da Verdi nell'impiego dei registri vocali. Assurge al rango di più importante voce maschile proprio quella che, nel melodramma belcantistico, godeva di minor prestigio. Il gusto belcantistico .aveva avversato il «baritenore». perché timbro poco stilizzato, comune, volgare, realistico. Ma proprio perché realistico, il romanticismo, e Verdi in modo precipuo, lo predilige. Da questa predilezione deriva la complessità di molte parti baritonali del periodo giovanile verdiano.

Consideriamo Nabucco, Don Carlo nell'Ernani, il Doge dei Foscari, Ezio dell’Attila, Macbeth. 

Sono cinque figure che hanno in primo luogo attributi regali o quasi regali, ai quali associano, in varia misura, quelli del guerriero e del conquistatore. Dunque, il primo Verdi è portato ad attribuire alla voce baritonale la capacità di caratterizzare personaggi epicheggianti e di alta levatura storica. All'interno di questa tendenza, il meccanismo dell'opera verdiana può anche isolare Nabucco e Macbeth e ridurli ad esseri annichiliti dai rimorsi e dalla follia. Ciò implica però sconvolgimenti interiori, drammi spinti alle estreme conseguenze. Di questi drammi - o tragedie - il baritono è, per il Verdi del primo periodo, l'unica voce che possa vivere e rendere le passioni. Il timbro «non stilizzato» è proprio ciò che agli occhi di Verdi la rende la più umana e credibile nella violenza come nel dolore o nel terrore. Verdi la ritiene anche capace d'una duttilità timbrica e psicologica che non individua né nella voce «stilizzata» e alquanto artificiosa del tenore chiaro, né nella voce tenebrosa e un po' monocorde del basso. E così nel tempestoso animo di Nabucco insinuerà le toccanti melodie dell'affetto paterno; e ancora l'affetto paterno addolcirà gli sdegni del vecchio Foscari, ingiustamente umiliate. Vedremo inoltre il baritono dell’Ernani tramutarsi, da una sorta di epigono di Don Giovanni, nel generoso, nobile e lungimirante Carlo V del III atto dell'opera.
All'Ezio dell’Attila queste trasmutazioni sono invece negate. Ezio non è un carattere scavato e variegato, ma un personaggio-simbolo, un'idea politica, uno strumento di propaganda. Ma è anche banditore, in nome di Verdi, di grandi sentenze patriottiche e unitarie; ed ecco appunto,un caso di identificazione tra voce di Verdi e voce del baritono. A Ezio potrebbe riallacciarsi, in nome della passione risorgimentale verdiana, Rolando della Battaglia di Legnano, ma questa figura è scalfita dalla disavventura, tipicamente baritonale, del marito tradito, sia pure soltanto idealmente, dalla moglie e dal migliore amico.
Giacomo della Giovanna d'Arco e Stankar dello Stiffelio incarnano personaggi, abbastanza consueti nel melodramma romantico, di vecchi padri gelosi dell'onore delle figlie. Queste due figure, anche se piuttosto stereotipe musicalmente e scenicamente, denunciano la tendenza verdiana ad avvalersi del baritono, a preferenza del basso, per le parti di padre. Quanto ai personaggi di baritono «vilain» e cioè di antagonista feroce e sleale, il primo Verdi ne accoglie soltanto tre: Guzman dell’Alzira, Seid del Corsaro e Francesco Moor dei Masnadieri, figura addirittura mostruosa, ma che, fra le tre, è la più approfondita psicologicamente, grazie alla scena d'incubo del III atto.
Ho già accennato alla duttilità che caratterizza, in Verdi, il baritono.
È una qualità legata al tipo delle parti e alla scrittura vocale. La voce del baritono è di solito classificata come grave e questo è anche il suo significato in greco, lingua dalla quale il termine deriva. Ma in Verdi è più proprio considerarla come una voce intermedia e, semmai, più gravitante verso il tenore che verso il basso.
Che Verdi avesse bisogno d'un tipo vocale diverso dal basso cantante di Bellini e di molte opere di Donizetti, è abbastanza ovvio. Ben più ampia era infatti la gamma di sentimenti che egli voleva affidare al baritono.
In primo luogo Verdi aveva di questa voce, come abbiamo già visto, una concezione epicheggiante. Era quindi inevitabile che per personaggi come Nabucco, il Doge Foscari, Ezio, Carlo V, egli tendesse a fraseggi concitati e veementi situati tra il re e il sol bemolle o sol naturale acuti.
Queste note sono infatti, nel registro baritonale, particolarmente vibranti e squillanti e servono anche a tratteggiare la temibilità (o in qualche caso soltanto la tracotanza: Seid del Corsaro) di certi personaggi.

Consideriamo l'Andantino «S'apprestan gli istanti d'un'ira» fatale del Finale II del Nabucco.

Il baritono dovrebbe iniziarlo - indica Verdi - «sottovoce e cupo» (specialità di Giorgio Ronconi, per inciso). Ma improvvisamente la voce scatta verso la zona acuta alla frase «Apprestan un giorno di lutto e squallor». È il momento in cui Nabucco s'attribuisce poteri divini e lo squillo del settore alto dovrebbe avere, idealmente, qualcosa di folgorante. Analogamente nell'Attila, allorché durante il duetto con il protagonista («La destra porgimi») la voce di Ezio sale con un arpeggio al fa acuto e poi resta in zona alta emettendo note di lunghissima durata (è la famosa frase: «Avrai tu l'universo, resti l'Italia a me»), è pacifico che l'effetto voluto da Verdi si fonda sullo squillo e sulla resistenza polmonare dell'esecutore.
Sarebbe tuttavia errato pensare che un registro acuto pieno e squillante costituisca il solo requisito fondamentale del baritono verdiano. È vero, per cantare le parti baritonali di Verdi occorre un settore alto particolarmente esteso, intenso e risonante e non per nulla i francesi hanno adottato il termine di «baryton Verdi» per designare un baritono acuto. Ma tutto considerato, lo squillo del settore alto, vincolato com'è alla fonazione detta «in maschera», ad un passaggio di registro eseguito in modo ortodosso e ad un'emissione piena, vibrante, ma esente da forzature, è un problema in buona parte tecnico.
Collateralmente, si presenta il problema stilistico e interpretativo concernente i concitati e veementi fraseggi in zona alta e, in senso più generale, le parti regali ed epicheggianti.
Con molto semplicismo si è creduto, in passato, di poter affermare che, per simili fraseggi e simili parti, occorrevano un baritono e uno stile «drammatici». Viceversa lo stile più appropriato è il «grandioso». Questo termine è suggerito dallo stesso Verdi. Quando, nel già ricordato duetto dell'Attila, Ezio attacca l'andante «Tardo per gli anni e tremulo», Verdi indica: «grandioso».
La stessa indicazione ricorre per l'Andante del II atto, «Dagli immortali vertici».
È una melodia solenne, paludata, che poi diviene tesa, veemente, appassionata, ma senza nulla perdere in maestosità, alla frase, oltre a tutto enfatizzata da un raddoppio orchestrale, «Roma nel vil cadavere chi ravvisare or può».
Ecco, questo è uno dei più eloquenti esempi dello stile grandioso richiesto da Verdi al baritono sin dalle opere giovanili.
Questo stile è per lo più riservato agli Andanti e l'indicazione di «grandioso» compare anche a proposito dell'Andante Sostenuto «Franco son io, ma in core» di Giacomo, nella Giovanna d'Arco. Qui però Verdi indica: «Grandioso declamato» e in effetti stiamo parlando d'uno stile a sfondo oratorio. Generalmente Verdi adotta, per il canto «grandioso», una scrittura sillabica o semisillabica, ma proprio nell'aria di Giacomo che ho ricordato ricorrono diversi melismi, come generalmente accadeva nelle parti che avevano come primo interprete il baritono Filippo Colini. Altri esempi di stile «grandioso» sono l'Andante «Questa è dunque l'iniqua mercede» del Doge Foscari, l'Andante con moto «Ah, de' verd' anni miei» di Don Carlo (Ernani) e l'Andante Sostenuto «Pietà, rispetto, amore» eseguito da Macbeth nell'ultimo atto.
L’Andante di Don Carlo (Ernani) è una delle pagine che meglio rivelano la natura del baritono verdiano. Contiene infatti i due stili fondamentali che il primo Verdi - ma anche il Verdi successivo - richiede a questo registro vocale: il «grandioso», appunto, e il «patetico».
Prima però di esaminarlo, vorrei accennare a un altro Andante dell'Emani e cioè al «Lo vedremo, veglio audace».  Qui l'esplosione di sdegno trova, nelle parole come nell'andamento melodico, una configurazione assolutamente iperbolica. La voce accenta con forza e su tessiture molto acute frasi come «Essa rugge sul tuo capo / pensa pria che tutta scenda / più feroce, più tremenda / d'una folgore su te». Ma il fraseggio, articolato su lunghi e incisivi periodi, resta largo e sostenuto e proprio questa ampiezza, unita a figurazioni verbali poco meno che apocalittiche (la vendetta del sovrano che «rugge» e che s'appresta a sfogarsi «più tremenda» d'una folgore) deve legare l'espressione del personaggio a qualcosa che non sia pura e semplice collera, ma senso della regalità offesa.
In altri termini: esprimere in questo momento pura e semplice ira, è fare del verismo o, tutt'al più, del realismo drammatico, al modo, appunto, dei baritoni veristi che cantavano Verdi negli anni Cinquanta e dei loro attuali epigoni.
Rendere invece il senso della regalità offesa è spingersi più in là e cogliere quell'essenza mitica della figura di Carlo V che, sia pure ampollosamente, è adombrata dalle parole del librettista.
E per questo occorre lo stile «grandioso».
Questo stile ricorre anche nell'Andante «O de' verd' anni miei» e precisamente nella seconda frase, ripetuta tre volte: «Vincitor de' secoli, il nome mio farò». Qui è l'epicheggiante aspirazione all'immortalità che deve suggerire, al baritono, una solennità perentoria, fatta di note ampie e squillanti. Il che sottolinea anche uno dei motivi delle tessiture acute verdiane.
Ma se le note ampie e squillanti non trovano, nell'interprete, anche una scansione e un'accentazione larghe, maestose, oratorie, l'effetto non sarà raggiunto. Né sarà raggiunto se il suono mancherà di rotondità, di pastosità e denuncerà invece forzature, fibrosità, opacità. E qui torniamo, come il cane che si morde la coda, al problema tecnico.
Lo stile è precluso a chi manca di tecnica e l'interpretazione a chi manca di stile.
Tecnica, stile e interpretazione sono tre elementi indissolubilmente collegati fra loro. L'uno condiziona l'altro. Ma l'«Ah, de' verd' anni miei» ci mostra anche l'altra tipica corda del baritono di Verdi e cioè la pateticità. La prima parte dell'aria è un lamento sulla giovinezza perduta e il carattere nostalgico e sognante della melodia è accentuato da ricorrenti fiorettature.

Non è difficile scorgere, alla base di questo andamento elegiaco-estatico, un richiamo alle nenie che, nelle loro prime opere di successo, Bellini e Donizetti scrissero per le effusioni e per i lamenti amorosi dei personaggi tenorili. Quasi mai Bellini e Donizetti scrissero per i loro bassi cantanti baritonaleggianti - da essi considerati come voci gravi - melodie così flessibili, nostalgiche e, torno a ripeterlo, così tenorili. Ed ecco un'altra spiegazione delle tessiture acute adottate da Verdi per il baritono. Verdi intende allargare in tutte le direzioni le frontiere di questo registro vocale, che vuole solenne, grandioso, epicheggiante, ma anche aperto alle timbrature e ai colori affettuosi, soavi, malinconici. E così spinge il baritono a parziali limitazioni dei timbri e dei colori del tenore attraverso melodie che nel disegno e nelle tessiture echeggiano appunto le malinconiche nenie protoromantiche. Di questo passo giungeremo a «Il balen del suo sorriso» del Trovatore e all'«O dolcezze perdute, o memorie» del Ballo in maschera, che è forse lo spunto più tenorile affidato da Verdi a un baritono.

Da qui consentitemi una divagazione. 

Se qualche lettore mi chiederà di tracciare un profilo storico del tenore verdiano, lo farò. Ma allora vedremo che il Verdi giovane è a disagio, con questa voce, stenta a ricavarne un vero e proprio personaggio (Ernani è un'eccezione, ma soltanto parziale), le affida figure stereotipe e melodie in genere scarsamente caratterizzate, che ricalcano stancamente formule donizettiane e belliniane o che si sfogano in un cabalettismo quarantottesco, latore di messaggi politici e patriottici abbastanza spesso anch'essi di maniera. Ma la grande elegia, quella che aveva portato Bellini (e sulla sua scia Donizetti) a valorizzare e a imporre il tenore chiaro protoromantico, nel tenorismo del primo Verdi manca. E la ragione, io credo, è proprio nel fatto che Verdi sottrae al tenore delle opere giovanili proprio la sua linfa più caratteristica, la melodia elegiaca ed estatica, per girarla al baritono. Non solo, ma operando questo trasferimento, Verdi si servirà della «cantilena» per esprimere non soltanto la solitudine di Don Carlo nel momento in cui diviene imperatore o quella di Macbeth allorché si scatena la nemesi storica, ma l'affetto paterno nelle sue espansioni e nelle sue sofferenze. Ed ecco allora dalle labbra di Nabucco levarsi l'Adagio «Ah! perché, perché sul ciglio» o la supplica «Deh perdona a un padre che delira» (duetto con Abigaille, atto III). O anche la preghiera «Dio di Giuda», anch'essa tipica dello stile patetico. Tutte queste melodie hanno, oltre che le tessiture tendenzialmente acute, i caratteri classici della nenia dolente, trepidante e nostalgica: andamento molto legato, motivo che si snoda per moto contiguo o per brevi intervalli, fiorettature o, quanto meno, scrittura non sillabica, ma semisillabica o neumatica. La malinconia e la tenerezza della nenia caratterizzano il fiorettato Andante in 6/8 «O vecchio cor che batti» del Doge Foscari, la prima parte della romanza «Speme al vecchio era una figlia» di Giacomo (Giovanna d'Arco) e, sempre nella Giovanna d'Arco, l'«Ella innocente e pura», primo esempio degli affettuosi, tenerissimi duetti tra il baritono e il soprano di Verdi, rispettivamente in veste di padre e di figlia.

Ed eccoci alla Luisa Miller, opera di frontiera. 

Per diversi aspetti appartiene al primo Verdi, per altri al Verdi della «Trilogia». Verdi, nella Luisa Miller, prende finalmente confidenza con il tenore, alla cui voce per la prima volta affida un vero personaggio; ed anche una vera, autentica melodia elegiaca e lunare insieme: «Quando le sere al placido». Il personaggio di Luisa, a sua volta, porta Verdi a certi criteri introspettivi che anticipano Violetta. E Miller, infine, è uno dei padri più riusciti. I personaggi sono solenni e maestosi, in Verdi, o per rango o per altezza morale. Miller lo è per altezza morale. L'Andante «Sacra è la scelta d'un consorte» porta puntualmente, all'inizio, l'indicazione: «Grandioso»; e ci presenta il caso del principio etico verdiano affidato alla voce baritonale: il diritto della donna di non subire costrizioni. Cantava Miller, alla prima rappresentazione (1849), Achille De Bassini, il più verdiano dei baritoni di quegli anni come fuoco ed energia, ma anchen- l'ho già detto - il più tenoreggiante. La conseguenza è che in quest'aria Miller fraseggia sillabando - «sillabando», non vocalizzando - su una tessitura per l'epoca acutissima. È un continuo battere, in certi momenti, tra il re e il fa acuti, con ascese anche al sol bemolle. Siamo però alle solite. La voce deve avere squillo, ma se l'esecutore forza o comunque mostra fatica, manomette il «legato» e scalfisce il senso di ciò che canta. La frase «In terra un padre somiglia Iddio / per la bontade, non pel rigor» richiede un accento perentorio, ma anche calda umanità. E l'umanità non la si esprime né con l'urlo, né con il muggito. La statura morale che Verdi vuole attribuire a Miller riappare nel Finale I, all'Andantino: «Fra mortali ancora oppressa»; e qui di nuovo, alla frase «A quel Dio ti prostra innante». Verdi indica: «grandioso». Ma al III atto, al «grandioso» sottentra il «patetico». L'Allegro assai Moderato «Andrem raminghi e poveri» è una di quelle melodie da ballata popolare la cui estrema semplicità  sgorga dallo spirito delle società contadina. E’ il sapore di cantilena va reso da una emissione lieve, dolce, trasognata.  In definitiva, Miller è una delle figure baritonali più tipiche di Verdi.
È il Giacomo della Giovanna d'Arco trasfigurato, elevato, musicalmente e scenicamente, a una solennità quasi patriarcale e, poi, di colpo, prostrato dalla sventura. Prendete un simile personaggio, cancellate il suo passato di soldato, fatelo vivere, anziché in un ambiente contadino, in una corte licenziosa, intrigante, sordida. Avrete Rigoletto.

DALLA TRILOGIA AL FALSTAFF

Rigoletto è uno dei personaggi più mitizzati di Verdi. Corrisponde, per un baritono, a ciò che è Violetta per i soprani o Manrico per i tenori. Dipende dalla complessità del personaggio. Complessità psicologica e conseguentemente, complessità vocale. È una figura contraddittoria. un concentrato di odio e di amore, di nobiltà e di abiezione. È il baritono che trama, secondo i doveri del deus ex machina del melodramma romantico, le insidie in cui dovrà cadere il tenore; ma queste insidie, improvvisamente e contro ogni regola, si ritorcono a suo danno. Ciò proietta su di lui una luce tutta particolare e ne fa uno dei personaggi più dolorosi di Verdi.
Inoltre è un essere dalla doppia vita, cupo, misterioso: è il «brutto tenebroso», contrapposto ai bei tenebrosi di stampo tenorile, come Gualtiero il pirata, Edgardo, Ernani. Visto come tipo vocale, è uno dei personaggi verdiani che più s'è trovato esposto, dall'inizio del nostro secolo in poi, alla veristizzazione. Soltanto Otello, Jago, Amonasro. Azucena e Amneris sono stati sconciati quanto Rigoletto. La collezione di gigionate che si può consegnare al museo degli orrori, dopo che si sono ascoltate le numerosissime edizioni in disco dell'opera, è talmente copiosa, ma anche talmente nota, da dissuadermi dal compilarne un inventario.
Direi però, a parziale giustificazione sia degli interpreti, sia dei critici e dei pubblici che li avallarono, che era molto facile, dieci anni fa come trenta o cinquanta o settanta, cadere nell'equivoco. Anzitutto, Rigoletto è deforme. Portate in scena una qualsivoglia deformità, anche in epoche non precipuamente tendenti al verismo. e vedrete l'interprete accentuarla e dilatarla. Perché Rigoletto, oltre che gobbo, debba essere anche sciancato – come spesso avviene di constatare in teatro – non l’ho mai capito. In secondo luogo Rigoletto è un buffone.
E anche questo è un tratto che agli interpreti piace dilatare; e spesso anche ai registi.
Ma la spiegazione più calzante, forse nelle tentazioni veriste, è nella conformazione del personaggio.
Sin dall'inizio Rigoletto inbocca la strada della declamazione e la batte a lungo: nella scena della festa, nel colloquio con Sparafucile, nel monologo «Pari siamo». Intendiamoci: poche altre volte un operista prestò a un personaggio una declamazione così duttile, varia e ariosa come Verdi a Rigoletto nel duetto con Sparafucile o in «Pari siamo».
Ma quello che sfugge normalmente ai baritoni, e anche ai direttori, è che la scena Rigoletto-Sparafucile è allucinante, soprattutto per i colori orchestrali, e che l'allucinazione, nel canto, salvo contrarie indicazioni dell'autore, la si esprime cantando con un filo di voce: timbrato, s'intende, non opaco o falsettato. E con un fil di voce, tranne la chiusa e pochi altri punti, dovrebbe essere cantato il monologo. A parte tutto, proprio perché è un monologo.
In definitiva. Rigoletto è un personaggio di petulante, ma non sguaiata estroversione quando esercita il mestiere di buffone di corte; è invece una figura introversa, e da intimizzare, quando è solo oppure quando è con Gilda. Badate alla guizzante introduzione strumentale che annuncia l'entrata di Gilda subito dopo la conclusione del «Pari siamo».
Un critico bacchettone e «idealista» vi dirà che è rozza e pacchiana.
In linea puramente musicale avrà ragione.
Ma un critico, di solito, è bacchettone e «idealista», e talora anche imbecille, per una ragione molto semplice: è un topolino di biblioteca che non ha il minimo senso del teatro e dell’effetto scenico.
E appunto sul piano dell'effetto scenico - che Verdi si poneva e è geniale. È il soffio della giovinezza di Gilda, è il bagliore dell’unica ragione di vita d'un uomo disperato, che si riscuote dalle cupe fantasticherie e dai neri presagi. Come notava, Stendhal (che sempre più mi convinco essere stato uno dei maggiori critici musicali della storia) tra le funzioni dell'orchestra, nell'opera italiana, determinante è quella non già di sostituirsi al canto del personaggio, al modo tedesco, ma di anticipare con concisione all'ascoltatore la situazione che i personaggi s'apprestano a vivere. Quest'anticipazione è spesso affidata ai colori strumentali. Qui i colori fondamentali sono quelli dei violini primi, dei flauti, dell'ottavino, degli oboe e dei clarinetti: chiari, delicati. ma anche festosi (per i trilli). Ecco così anticipati il candore, la giovinezza e l'affettuosità di Gilda. Muta di colpo tutta l'atmosfera, l'uomo cupo e sospettoso diverge verso la tenerezza e la pateticità.
E chiaramente il duetto che segue dovrebbe essere quasi tutto «sospirato» dal baritono; e molti ci provano, infatti, ma non sapendo cantare o si opacizzano o si strozzano; e talvolta anche stonano. Perché siamo alle solite: il Verdi che fa toccare al baritono la corda patetica, prova il bisogno irresistibile di portarlo su tessiture acute per dargli abbandoni quasi tenorili. Salvo, poi, a farlo squillare in frasi come «Culto, famiglia, la patria, il mio universo è in te». E anche qui la tessitura è abbastanza alta, ma l'assunto che il personaggio proclama, il modo iperbolico nel quale enuncia i valori in cui crede, esigono squillo, non suoni opachi o urla, e grande ampiezza d’accento.
Perciò Verdi è difficile; e Rigoletto difficilissimo.
Per questi contrasti repentini. Lasciamo stare le urla bestiali di «Gilda! Gilda!» alla conclusione del I atto, proprio mentre Verdi scrive: «Vorrebbe gridare, ma non può...» Altra favolosa intuizione teatrale. I violini, se fate bene attenzione, proprio questo esprimono: un crescente sbigottimento che mozza il fiato, che toglie la parola. Ed ecco i «la rà, la rà» del II atto; e dovrebbero essere uno diverso dall'altro, come colore, come intensità, ma in perfetta misura. Una volta, poi, in un teatro abbastanza importante, un baritono abbastanza importante, alla frase «Ove l'avran nascosta?» (da sussurrare, perché Piave la mette tra parentesi) non solo non sussurrò, ma si chinò a guardare sotto un tavolo, come se infallantemente Gilda fosse stata nascosta lì. «Elementare, mio caro Watson». Ed ecco l'invettiva ai cortigiani, che poi sbocca, improvvisamente, nella preghiera «Miei signori». Badate a come è ansante il fraseggio di «Cortigiani», a come sono irregolari e spasmodiche le riprese di fiato, ispirate non alle necessità musicali-vocali, ma al ritmo, alle cadenze del linguaggio parlato e quindi verista.
Anche l'andamento apparentemente declamatorio (e di tessitura piuttosto alta, pur senza essere acutissima) sollecita il grido verista. Questi sono i tranelli che Rigoletto tende agli interpreti. E dopo tutto questo, ecco, d'improvviso, la melodia patetica, ma interrotta da incisi convulsi che anch'essi blandiscono gli istinti veristi perché verista è l'ansimare del fraseggio: «Dimmi tu / dove l'hanno nascosta? / È là / non è vero? / è la? / non è vero?» etc. E come si fa a non resistere alla tentazione? Quindi Rigoletto muta dimensioni, diviene padre nobile e vendicatore. Ma vendicatore al modo di Victor Hugo: giustiziere, cioè, non autore o promotore d'un delitto d'onore qualsiasi. Ed ecco intervenire lo stile grandioso. Nell'Allegro Vivo del «Sì, vendetta» spesso non lo si percepisce e per tre ragioni: i direttori e i baritoni precipitano i tempi; il baritono spiana tutte o quasi tutte le terzine semivocalizzate, che Verdi ha scritto non per capriccio, ma nobilitare e spaludare una melodia che, diversamente, suona secca ed elementare; sempre il baritono, infine, cerca l'accento rissoso, invece che l'accento del giustiziere. Ho già detto abbastanza.
Aggiungo soltanto che tutti o quasi tutti i recitativi dell'ultimo atto andrebbero cantati con il suono tondo e l'accento altisonante e solenne d'un sacerdote. Giacché Rigoletto celebra il rito della giustizia e Verdi è profondamente convinto che ciò sia legittimo. Che poi il caso si ritorca contro il protagonista è un'altra questione.
Il Conte di Luna è il più ferrigno ritratto di uomo medievale dalle passioni sfrenate che figuri nell'opera verdiana. Ha tessiture altissime, quasi tenorili nell'aria «II balen del suo sorriso», che è d'altronde uno splendido, appassionato canto d'amore. Eseguirlo con tutti i segni d'espressione previsti da Verdi è, credo, materialmente impossibile. Dirò che questo personaggio m'entusiasma. Nel terzetto del I atto, nella cabaletta «Non può nemmeno un Dio», nel duetto con Azucena, nel duetto con Leonora ha uno slancio ritmico e un braccare la preda che travolgono.
Ma anche a lui lo stile grandioso è indispensabile.
Ha qualche cosa di omerico, in certi suoi smodati furori e in certa sua iattanza; ed è anche il mitico «vilain» da ballata popolare. Suo fratello in iattanza, in irriducibili furori e in tessiture altissime è Carlo de Vargas della Forza del destino; ma con un fondo di nobiltà che l'aria «Urna fatale» (oggi regolarmente abbassata di mezzo tono per la sua altezza di tessitura) esprime o dovrebbe esprimere. Credo di averlo già detto altre volte.
Il Carlo della Forza del destino è l'emblema d'un codice cavalieresco. Spietato, disumano, ma cavalieresco. E come potrebbe non avere lo stile grandioso? Come potrebbe non averlo il Renato del Ballo in maschera, uno dei personaggi più maltrattati dai baritoni della scuola del muggito, se è una figura umanissima, nobilissima e dolorosa, ma anch'essa vincolata a un codice cavalieresco che è uno dei cardini di quasi tutto il melodramma e di quasi tutto il teatro di prosa romantico?
Ma parlavo, nella parte iniziale, del Verdi che nelle opere giovanili sottrae al tenore le melodie tenere e nostalgiche per insignirne il baritono, sua voce prediletta.

La frase «O dolcezze perdute, o memorie» è il punto d'arrivo di questa tendenza, il passo più tenorile, forse, scritto da Verdi. 

E Mattia Battistini, che era un vero baritono, ma dalla mezzavoce tenorile, lo cantava. Ma ritolte spesso al tenore certe effusioni nostalgiche, altrettanto spesso Verdi mortificò il basso, spogliandolo delle parti di padre.

Giorgio Gérmont della Traviata è un altro personaggio calunniato e incompreso. La cantilena «Di Provenza» (uno dei migliori Andanti da lui scritti, dichiarò una volta Verdi) è d'una affettuosità toccante. Ma bisogna saperla cantare con levità e abbandono, altrimenti diviene una filastrocca. E anche il duetto con Violetta è quasi tutto levità, sussurri e giochi di colore. L'inerzia stilistica e interpretativa d'un Bastianini a fianco d'una Callas che alla Scala dava l'anima, in certi pianissimi laceranti, resta uno dei peggiori oltraggi che le mie orecchie e la mia sensibilità abbiano mai sopportato. E questo anche se i suoni erano buoni. Buoni, ma insignificanti. Ricordo che lo rilevò anche Eugenio Montale, allora critico del «Corriere d'informazione». Scrisse più o meno questo: «i baritoni di oggi non hanno idea di come debba cantare un padre in Verdi».

Anche Simon Boccanegra è spesso inadeguatamente servito. 

Se c'è un personaggio che, con evidenza palmare, corra lungo la direttrice stile patetico-stile grandioso, è Simone, portatore di ideali civili in cui Francesco Petrarca e Giuseppe Verdi si assimilano, ma padre d'una affettuosità mitica. Il duetto Simone-Amalia ha quel sapore schiettissimo di ballata popolare che, iniziato nei duetti padre-figlia della Giovanna d'Arco e della Luisa Miller, qui raggiunge il culmine. È la storia dell'orfanella, del vedovo inconsolabile e dell'agnizione, che in Verddi trova la sublimazione.

Volete sapere perché amo Verdi? 
Perché tramutò i sentimenti elementari d'un immaginoso popolo contadino - dalla pietas alla superstizione, dal senso del campanile alla faida - in un'immensa saga melodrammatica. 

Amonasro? Come può non essere aulico e grandioso, se è un re guerriero? E Rodrigo di Posa? La vecchia figura dell'amico e del confidente, relegata in genere ai margini della vicenda melodrammatica, per merito di Verdi nel Don Carlo giganteggia. Verdi l'ideò per Faure, uno dei baritoni più eleganti e «grandi seigneur» dell'epoca. Ma in Italia, in Inghilterra, in Russia Rodrigo di Posa fu divulgato da Antonio Cotogni, che insieme a Francesco Graziani, Leone Giraldoni e Gottardo Aldighieri costituì il gruppo dei baritoni storici di Verdi tra il 1860 e il 1880.

La predilezione di Verdi per il baritono esplode senza ritegno nelle due ultime opere.

Tra un beota (Otello) e un'oca (Desdemona), Jago, unico barlume d'intelligenza nel pasticcio combinato da Boito, giganteggia perché elegante, sofista, dialettico. È lui il protagonista e la prova provata (anticipata d'altronde da certe lettere di Verdi) l'hanno fornita Renato Bruson e Riccardo Muti in un recente Otello fiorentino. Bruson è il primo, autentico e completo Jago da me visto e ascoltato. Più completo perfino di Warren, che pure, in tempo di muggiti, di cachinni, di urla becere e di «quel fazzoletto io vidi in man di Cassio» strepitato, aveva ben capito come la cosa funzionasse. E infatti il pubblico scaligero degli anni Cinquanta restò di gelo.
Il peggior pubblico di tutta la storia dell'opera, specializzato nell'esaltazione di magliari della vocalità. Ma non solo quello della Scala.
Ho udito, recentemente, la registrazione d'un concerto tenuto, non so se a Roma o a Torino, nel 1954, da Gigli e dalla Callas. Per Gigli, ormai esausto, che sbraita in modo indegno l'Improvviso dello Chénier, urla frenetiche; per la Callas, che esegue la grande aria di Costanza del Ratto dal serraglio con l'impeto drammatico e la coloratura serrata e mordente che il vero Mozart richiede (e il vero Mozart non è quello delle subrettine inglesi e tedesche) applausi tutt'al più cordiali.
Iago è tutto un gioco di colori tenui e sfumati, di accenti sottili, di allusioni. Fa storia a sé, nella genealogia del baritono verdiano. Canta su un doppio registro, giacché spesso tenoreggia, e non è, naturalmente, né grandioso, né patetico, ma «loico» [ndr: loico=chi si dedica allo studio della logica, ragionatore acuto]. Come lo è, a suo modo Falstaff, al quale Verdi diede anche qualche gradazione del basso, in aggiunta a una base baritonale e a vezzeggiamenti tenorili. E fu, come Iago, una parte scritta ad personam. Verdi aveva trovato in Victor Maurel un cantante che parlava alla sua fantasia. Non furono molti i cantanti capaci di parlare alla fantasia di Verdi: il tenore Fraschini, la Patti, la Stoltz e Maurel nel senso più ampio della parola; la Frezzolini, la Cruvelli, la Lynd, la Barbieri-Nini, la Waldmann, il baritono Coletti e fors'anche il baritono De Bassini in un senso più contingente e transitorio. Tutto qui, dall'Oberto di San Bonifacio al Falstaff.
§§§
Ed ora una coda per una questione sollevata da Paolo Cavalli di Parma a proposito delle affermazioni di un altro lettore, l'ingegner Rochi di Salerno. Sono due giovani colti, studiosi, che amano spingere le loro ricerche al di là dei confini veri e propri del melodramma; e Cavalli, in aggiunta, è musicista praticante e laureando in storia della musica. Ronchi ha compreso (ma vorrei che lo comprendessero anche altri) che per avere una giusta idea di quelle che sono state le più autentiche voci verdiane maschili, ci si deve rivolgere quasi esclusivamente (non così per le voci femminili) ai dischi a 78 giri del primo trentennio del nostro secolo. Quando udì per la prima volta i dischi di Pasquale Amato, mi scrisse - e io pubblicai una parte della sua lettera - che per lui questo baritono era stato una rivelazione. Aggiunse che quando io parlavo di Renato Bruson come interprete verdiano, eccedevo in lodi, trattandosi, sì, del maggior baritono di oggi, ma, in definitiva d'un cantante molto meno attrezzato di Amato in fatto di fantasia interpretativa e qualità di suono. Mi scrisse allora Cavalli, elencando le parti verdiane, in primis Simon Boccanegra. in cui Bruson è, a suo avviso, interprete e cantante completo.
C'è da premettere che né Ronchi, né Cavalli, né io abbiamo ascoltato Amato dal vivo. Ci basiamo, dunque, su dischi che, tra l'altro, raramente offrono confronti diretti con le parti verdiane in cui Bruson eccelle: Simon Boccanegra, Macbeth e ora, anche Jago. A me sembra che nel Verdi più tradizionale (Rigoletto, Forza del destino, Trovatore, Ballo in maschera) i dischi di Amato lasciano udire un'estensione, una timbratura, uno squillo, una facilità e anche un'aggressività e imponenza d'accento che a Bruson mancano. Anche la varietà dei colori e l'uso delle mezzevoci sembrano favorire Amato, che, in definitiva, è completo sul piano sia dello stile patetico, sia dello stile grandioso. Ma è soprattutto questione di superiorità tecnica. Sembrerà strano, ma centi punti deboli di Bruson non dipendono da limitazioni congenite, ma da un passaggio di registro ritardato e incompleto (la voce che tende a sbiancarsi e a stimbrarsi in certi acuti, il gioco delle mezzevoci meno sicuro in zona alta e simili).
Detto questo, è chiaro che nello stile grandioso da spiegare sulle alte tessiture, Bruson deve difendersi, anche se lo fa con intelligenza, finezza e musicalità. Ma ha un timbro d'una melodiosità, d'un calore, d'una nobiltà, d'un velluto affascinanti; e una suggestione, nel genere patetico, alla quale è difficile resistere.
Senza contare il gusto severo e, nei confronti di Amato, ben più aggiornato. Poi c'è l'attore. Bruson è un vero attore-cantante. Dicono le cronache che anche Amato lo era. Ma chi di noi l'ha visto recitare?

articolo di Rodolfo Celletti credo fine anni 1980

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