Un ballo in maschera alla Scala: è la somma che fa il totale!

by Domenico Donzelli, Scritto il 10 luglio 2013
La Scala nell'idea popolare e populistica è il teatro italiano, e non solo, che fa CULTURA e STORIA.  

Spesso abbiamo detto che così non è più da almeno cinquant'anni. 

Sbagliato e meritevole di ripensamento: la Scala è e rimane il massimo teatro italiano e fra i primi al mondo  anche quando presenta spettacoli impresentabili come il Ballo di ieri sera ( più che ispirato al Ballo di P. Pizzi..ad esempio..), che tra quelli visti quest'anno forse non era nemmeno il peggiore

Alla fine, però, è la somma che fa il totale, ed il conto è arrivato puntuale, prima della pausa estiva.

Questa volta a reagire è stato il pubblico più fedele ed affezionato, sfiancato da una teoria di allestimenti tutti uguali quale che fosse il titolo, inutili ed invasivi del testo poetico e musicale. Ha pesantemente contestato a scena aperta a partire dall'inizio del secondo atto quando Amelia, agghindata come Diana Bracco, si reca nell'orrido campo per cogliere l'erba e l'orrido campo altro non è che il solito cavalcavia  frequentato da battone, una delle quali non trova di meglio che rapinarla

E la rapina con spoliazione avviene mentre il soprano canta le frasi più difficili del brano, perché complicare la vita ai cantanti è dovere dei registi!

Questo Ballo, dettato nell'allestimento dalla foia di essere moderni, di svecchiare, di superare allestimenti iconografici e viscontianamente descrittivi,  che sembra essere stata la sola o principale peculiarità della gestione Lissner,  dettato, quanto al  canto, dall'irrefrenabile desiderio di chiamare alla Scala le  star internazionali. 

Aspetto quello del canto che ad avviso del Corriere della Grisi, meritava riprovazione ancor più sonora di quella riservata ai responsabili della parte visiva.

Sorge, legittimo, il dubbio che tali caravaserragli di spettacoli adempiano, fra le altre, la funzione di distogliere l'attenzione del pubblico dal periclitante parco vocale raccolto dalla direzione del teatro.

Come detto e ripetuto, gli spettacoli che devono svecchiare sono  più vecchi dei vecchi, perché costruiti sempre sull'idea di stupire esibendo computers, campagne elettorali di un Kennedy o Clinton di turno ( ma chi fa la Levinsky o la Monroe, il paggio Oscar? Così siamo a la page anche con le unioni gay? ), coiti gay,  cappotti, anziché quelle situazioni che, miglior regista di sé, Verdi aveva pensato

Colgo l'occasione per invitare a reperire e leggere le note di regia (centinaia di pagine), che Verdi divenuto VERDI predispose per Aida e Don Carlos oltre che per Otello. Il che non significa ripetere lo stereotipo, ma avere chiaro che cosa volesse l'autore, non tradirlo non coprirlo di ridicolo credendo di essere moderni quando si è solo provinciali e forse correi di scelte vocali e direttoriali mediocri

E poi lo sanno tutti: di qualsivoglia orientamento sessuale si intenda un duetto d'amore, si canta vicini ed uniti, e non già con l'innamorata che percorre i luoghi di battuage, mentre Riccardo canta l'amore!

Ieri sera alla Scala tutto era brutto,  squallido,  piatto e soprattutto insignificante ed incongruente con la storia dell'amore impossibile. 

Questa contestata parte visiva non era la cornice e l'amplificazione  a questa storia, ma qualcosa che arrecava fastidio al dramma medesimo.  

L'elenco delle incongruenze, delle ridicolaggini è lungo.  
Talune devono essere segnalate. 
  • Riccardo e la sua corte, o meglio, il suo staff risiedono e lavorano nel solito ufficio prefabbricato arredato Ikea e rischiarato dalle solite luci al neon. 
  • Ulrica è una santona ovvero teleimbonitrice alla Vanna Marchi, che risana i paraplegici (impossibile, stante la presenza dei soliti plaudenti stanziali del teatro, non ironizzare sulla palese incapacità della guaritrice di risanare i sordi…!), 
  • mentre l'orrido campo è l'ennesima periferia degradata, popolata da battone (perché le proverbiali escort bazzicano, per il solito, ambienti ben più lussuosi), occasionalmente dedite a pestaggio, rapina e borseggio. 
  • Tralasciamo la festa conclusiva, mutata in omicida convention di partito, ovvero party elettorale, nella quale Dio sa che cosa accada, stante che il moribondo sovrano, rectius, presidente (non si sa bene di che cosa) appare vivo e vegeto ( sarebbe la personificazione di lui nel ricordo di Amelia..), mentre a morire al suo posto è una controfigura.
Aspra critica socio-politica (da bar) o semplice, l'ennesima, incongruenza, nonché ridicolaggine?

Dobbiamo avere il coraggio di gridare basta cappotti, basta Freud da bigino Bignami, basta squallide periferie, basta strutture post industriali e gridare qui come altrove (dove lo sterminio dell'opera è sistematico e scientificamente organizzato) che il melodramma è ben altro e che la parte visiva è e rimane, di quella vocale e musicale, contorno e non già nuovo e diverso protagonista. In difetto di una reazione onesta e colta la morte  del melodramma sarà ancor più rapida e dolorosa.
Per altro alla fine contribuiscono da par loro la parte vocale e musicale.

Pessima la direzione dell'acerbo Daniele Rustioni.
Al preludio il tema dei congiurati e quello degli innamorati è staccato con medesimo tempo, medesimo colore orchestrale, medesima sonorità. Accompagna senza fantasia il primo atto, con scollamenti orchestra coro a partire dall'intervento dei congiurati al quadro primo, bandistico e pesante il concertato che chiude il quadro, senza colore l'introduzione in quello, che per noi poveri retrogradi, è l'abituro di Ulrica . Alla fine del primo atto dall'ingresso di Renato in poi il  fragore cresce. Ma "il meglio" arriva al terzo atto dove la scena della congiura è risolta a colpi di gran cassa, la mazurka della morte è metronomica e veniamo risvegliati dai soli colpi di piatti che ci dicono che è ora di andare a casa . Durante la seconda aria di Amelia davanti a due piani della Ravdonoscky, che attenuavano il rumor di ferraglia, l'orchestra era miseramente identica a prima. Questo fa anche dubitare di una se pur minimale concertazione.

Il trio femminile è la raffigurazione del Brocardo milanese "la povertà, la miseria e la bolletta". 
A scelta del lettore appioppare a ciascuna delle signore il più pertinente dei tre epiteti.
Sondra Ravdanosky, impegnata da tempo in un repertorio degno di Anita Cerquetti o Zinka Milanov, emette suoni sordi in basso, afoni al centro, gridati e fischianti in acuto e siccome l'emissione è tutta tubata la fissità è egualmente distribuita per tutta la gamma della voce e priva la cantante di qualsivoglia possibilità espressiva perché il suono con una siffatta emissione non può essere né addolcito né piegato, ma solo "buttato fuori". Le autentiche urla fisse e fischianti in zona medio alta i tentativi maldestri di smorzature (la di "Consentimi Signore" piuttosto che si bem della  cadenza dell'aria del terzo atto) non consentono neppure di parlare di un aborto di interpretazione. Aggiungo non si capisce una parola perché questo metodo di canto non consente di articolare  e talvolta (inizio del terzo atto) compaiono come di dovere suoni bassi aperti e gergalmente detti "svaccati". Peraltro, dato che orami le voci sono tutte senza proiezione, mentre la signora di voce ne ha veramente tanta, in omaggio al detto "Tanto è bello" la signora ha ottenuto tantissimi applausi alle arie, ma non mi è stato dato di incontrare alcuno che mi abbia manifestato apprezzamento per il suo canto sgraziato e la sua voce sgradevolissima.
Patrizia Ciofi, abbigliata stile ex ministro Gelmini alla prima scena, soprano di agilità il cui prossimo evento "schedulato" sarebbe Lucia di Lammermoor, non è in grado di emettere i parchi acuti che la parte prevede e nel quintetto della congiura piuttosto che nella chiusa del primo quadro del primo atto (dove Oscar è il protagonista) è risultata inudibile. Sale e pepe, ironia o sbruffoneria, che sono le peculiarità del personaggio sono, con tale organizzazione vocale sconosciute.  Per altro è molti anni che la signora Ciofi non emette suoni, ma aria calda. E per capirlo basta guardare come canta priva di qualsivoglia sostegno della voce. Inesorabili in questo senso i vestiti contemporanei.
Terzo soggetto del campionario Marianne Cornetti, usurata dagli anni e dal repertorio, che ha accorciato e rotto in due la voce, che in natura sarebbe stata di soprano e che oggi difficilmente può essere qualificata. E' stata di però la miglior della serata, anche perché ha contenuto i suonacci. IL suo momento migliore è stato il sorriso esibito durante la contestazione ricevuta dal regista.

Sempre in onore ai detti, "tale la moglie e tale  il marito" (sebbene terrorizzato dalle corna), ossia Z. Lucic. Rozzo nell'emissione e nel gusto, sfocato e spinto negli acuti, incapace di canto di conversazione ed ancor più di quel minimo di eleganza e dolcezza che le "perdute memorie", condotte a termine con evidente fatica e pessimo sostegno del fiato, impongono.
Paradossalmente un po' meglio Marcelo Alvarez, che da tempo canta come parla, anche lui senza il sostegno del fiato e sfruttando ancora ( e qui siamo alla soglia dell'incredibile)  quello che avanza di una splendida e generosa natura, che se sorretta dalla cognizione tecnica dei tenori antichi e da una maggior musicalità gli avrebbe consentito di essere il tenore romantico per eccellenza. Allo stato gli acuti sono ghermiti,  previa presa di fiato, la linea musicale ed il legato (soprattutto in "Ma se m'è forza perderti") inesistenti, cosicchè il personaggio non va al là della più generica concitazione. All'età di Alvarez  due famosi Riccardo (Beniamino Gigli e Richard Tucker) erano allo zenith della voce. E questo deve far riflettere.

Tralascio le note di colore sotto il portico di via Filodrammatici, un vero e proprio quarto atto di vero teatro, quello si!, che immagino apparirà presto su YouTube in HD, ed i bigliettini volati sulla platea alla fine del primo atto con scritte del tipo "L'ignoranza artistica non è accetta", " Questo è un sacrilegio!" etc…che un 'anzianissima signora ha lanciato dal loggione. Non oggetti di folklore, ma di riflessione per chi ha portato un pubblico tollerante ed amante di questo teatro ad una simile reazione.

Noi della Grisi, che come Qui Quo Qua siamo stati spettatori divertiti della baraonda e che non ci facciamo distrarre dal canto da nessuna cosa al mondo, ci siamo solo chiesti quale effetto avrebbe sortito questo cast senza Michielettosuperstar,  perché tanti applausi ci sono sembrati di "rinculo" al baccano ed alle contestazioni in sala. 
E ci limitiamo a fare osservare che mentre la gestione lissneriana tramonta, il consiglio di amministrazione, la cui nomina è stata messa in discussione dalla Corte dei Conti ( ed i giornali non ne parlano più ) sceglie una sovrintendenza futura ancora più esteriore ed ancora più ancorata di questa al teatro di regia. 
Il pubblico va da una parte mentre chi sceglie va dall'altra, ma paga con i soldi del primo! Non c'è forse qualcosa che non va?

 

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